La via obbligata (e molti dubbi)

Prende forma faticosamente il primo governo «contrattuale», trasversale e «populista» non solo dell’Italia ma dell’intera Europa occidentale. Lo si può anche definire come un esecutivo inclinato a destra, per la presenza massiccia della Lega e l’astensione probabile di Fratelli d’Italia; e per i cromosomi multicolori dei 5 Stelle, la forza maggiore. Ma avventurarsi in definizioni che scontano categorie logorate dal voto del 4 marzo scorso potrebbe rivelarsi fuorviante e inutile. L’impressione è che quanto emerge dopo tre mesi di trattative nervose e sfibranti sia la traduzione politica della trasformazione culturale che la società italiana ha prodotto in questi anni. Una metamorfosi ambigua, tra voglia d’ordine e impulsi rivoluzionari; affidata a un mix di politici e di figure «professorali» anonime e senza vero peso politico: a cominciare dal premier Giuseppe Conte, pure affiancato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini come vice-presidenti del Consiglio. Il primo anche ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro; il leader leghista come ministro dell’Interno. Insomma, rimangono intatte, perfino doverose, le perplessità sulle capacità di governo della nuova nomenklatura. L’immagine di dilettantismo e la mancanza di rispetto verso il Quirinale e tutto ciò che odora di establishment, emerse a intermittenza, non possono essere rimosse; né il danno d’immagine e i costi economici che l’Italia ha subito in giorni di attacchi scriteriati ai maggiori alleati europei e alle istituzioni di Bruxelles: sebbene, a volte, alimentate da maldestri stereotipi anti-italiani.<

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La babele di dichiarazioni sulla moneta unica ha allarmato inutilmente i mercati finanziari. Ma alla fine, un capo dello Stato della «Prima Repubblica» come Sergio Mattarella, minacciato in modo greve e gratuito, ha dimostrato capacità di ascolto e tenuta: al punto che i suoi detrattori lo hanno accusato di cedevolezza ai «quasi vincitori». Non poteva fare altro, in realtà. Il presidente della Repubblica ha capito prima e più di altri, forse più degli stessi Di Maio, capo del M5S, e del leghista Salvini, che andava aperta un’altra fase. Non, però, col trauma di elezioni anticipate, osservate con golosità da un Salvini in ascesa. E nemmeno con soluzioni ministeriali provocatorie che potevano mettere a rischio l’appartenenza dell’Italia all’euro e alla Ue. Su questi punti, Mattarella è stato fermo, fino a sfiorare un altro scioglimento. Alla fine, la rabbia miope dei suoi interlocutori si è dovuta piegare alla realtà: seppure in modo ambiguo. Dopo altri faccia a faccia tra i «diarchi» Di Maio e Salvini, circondati da una miscela insieme di curiosità, stanchezza e insofferenza, ieri sera i due hanno annunciato che la soluzione di un «governo politico» era a portata di mano. E Mattarella l’ha aiutata, convinto che la nuova stagione si dovesse inaugurare con una scommessa di governo, tutta in salita, affidata all’Italia semi-sconosciuta che si affaccia al potere. Non sarà facile rispondere alle enormi attese racchiuse nei consensi ottenuti il 4 marzo con la contraddittorietà della protesta, ma anche con chiarezza. Sarebbe suicida, per l’Italia e per la stessa maggioranza allo stato nascente, considerare l’approdo al governo come una corsa rapida e senza responsabilità su un taxi elettorale: un po’ di mesi di leggi in deficit, di scontro con l’Europa e di carezze alle peggiori pulsioni demagogiche, per poi tornare alle urne.

Certo, la prospettiva delle Europee del 2019 promette di accentuare le tensioni e le spinte centrifughe tra sodali del «contratto» di governo. Se a questo si aggiunge l’inesperienza della maggior parte degli attori, il punto interrogativo diventa corposo. Eppure, la sfida che Mattarella consegna a M5S e Lega è di smentire chi scommette sul loro fallimento. Si tratta di una fiducia obbligata a chi l’ha ricevuta dagli elettori: benché molti ministri-chiave non siano stati eletti. Il capo dello Stato ha dovuto mediare, per rilegittimare un Quirinale visto da un pezzo del Paese come parte integrante del sistema da superare. Ma la maggioranza ha capito che l’unico puntello istituzionale in grado di evitarle di schiantarsi prima ancora di cominciare, è la presidenza della Repubblica, per quanto associata al passato. Non sarà un periodo facile. Il resto dell’Europa guarda all’Italia con apprensione. Teme che sia il laboratorio di quanto può accadere altrove in tempi brevi. Proprio per questo le nazioni alleate, ancora di più l’Italia, devono sperare che l’esperimento non si riveli un disastro. Anche perché un’alternativa non esiste. Pd e Forza Italia all’opposizione con frammenti della sinistra non sembrano in grado di offrire molto. E dovranno passare attraverso un azzeramento delle nomenklature e della strategia.

A oggi, sembra che fuori del governo rimarranno quasi solo i nostalgici del «patto del Nazareno» tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Se non si cancellano il profilo e le logiche di quell’intesa, sarà complicato proporre un’alternativa credibile allo strano ircocervo che avanza. Si delinea un esecutivo che deve emanciparsi dall’infantilismo della protesta e delle promesse impossibili. È nuovo ma ha contorni sfuggenti e transitori. Per definire la sua vera forma, sarà necessario aspettare. Bisogna accontentarsi di avere scampato il pericolo immediato di elezioni: sperando che basti. E dire grazie al vero spirito di servizio dell’economista Carlo Cottarelli, presidente incaricato di formare un governo del Presidente, che ha accompagnato Mattarella in un passaggio cruciale, per poi farsi silenziosamente da parte.

CORRIERE.IT

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