Lento abbandono

A Roma c’è una donna di quarantasei anni che fa fatica a respirare e si precipita al pronto soccorso più vicino. Si siede e aspetta. Aspetta e boccheggia. Boccheggia e collassa. Per dodici ore la tengono ferma in quell’anticamera di dolore, prima di accorgersi che manca uno strapuntino per ricoverarla. Bontà loro, decidono di trasferirla a Grottaferrata. In macchina o in ambulanza, ancora non è chiaro, ma di sicuro senza un medico a bordo. Lungo il tragitto peggiora e viene straziata da un doppio infarto. Da Frascati arriva finalmente un’ambulanza accessoriata di laureato in Medicina, che concluderà la sua corsa al Policlinico di Tor Vergata, dove la signora approda in coma farmacologico. Il tragico gioco dell’oca è finito.

Lei si chiamava Isabella, lascia un marito e un figlio adolescente a cui non sarà facile spiegare che il Paese che ha fatto morire in questo modo sua madre è un posto civile. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti. Eppure è tutto fin troppo noto. È noto che i tagli allo Stato sociale hanno ridotto di un terzo il numero delle ambulanze.È noto che i «pronto soccorso» dovrebbero piuttosto chiamarsi «lento abbandono»: bolge dove scarseggia tutto — i posti letto, i medici, l’educazione — e un personale ridotto all’osso è costretto a mettere a repentaglio anche la propria salute in turni infiniti e non coperti dall’assicurazione. Ed è noto che, se non sei noto almeno a qualcuno, in quei luoghi di sofferenza non sei nessuno. Il cittadino invisibile di uno Stato più invisibile ancora.

CORRIERE.IT

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