Prigozhin, il mercenario sanguinario assetato di potere che ha osato tradire lo Zar

Domenico Quirico

Evgenij Prigozhin durante l’avanzata della Wagner a Bakhmut

Grossolano nei gusti, nelle abitudini, nel linguaggio, nella persona, perfino nel lavoro di padrone di una compagnia di ventura, manesco come un facchino, schiamazzone insolente: ecco in poche parole il ritratto del ribelle di Rostov, Prigozhin. Solo a guardarlo latrare, con l’elmetto di traverso e il grasso che sfonda il giubbotto antiproiettile, mentre annuncia la marcia su Mosca «per liberare il popolo», proprio lui, dopo averne fatte di tutte le tinte, ti mette il cuore a traverso. Sentirlo parlar di libertà è bestemmia che dovrebbe annichilirlo, visto che nei suoi attacchi all’élite militare «con i figli al sole delle Maldive» pigliava caldane per la legge marziale e la guerra totale: «Bisogna vivere qualche anno sul modello della Corea del Nord… bisogna fucilare duecento persone come ha fatto Stalin» proponeva questa specie di Farinacci putiniano, di suocera del regime. Una lettura che dovrebbe suggerir prudenza a coloro che a occidente cominciano già a trovarlo simpatico perché risolverebbe il problema Putin.

Con violenze brutali, commettendo i peggiori abusi e spregevoli soperchierie, spremendo da un capo all’altro del Medio Oriente e dell’Africa la sua carne da mortai, frustata, macellata e dimenticata era diventato troppo ricco per essere punito. Finora. Ha infinite volte nell’anno e mezzo di guerra sfiorato il reato di lesa maestà. Chissà: il conquistatore di Bakhmut si è accorto che l’impunità stava per finire. La sua ascesa, le sue accuse che cadevano nel vuoto torricelliano, le sue ambizioni politiche (ha cercato di metter le mani sul partito nazionalista Rodina) gli hanno procurato rancori feroci e pressoché universali, nell’esercito, in una parte consistente dell’Fsb, i servizi di sicurezza, tra i mandarini della burocrazia accaparratrice putiniana. Uno sguaiato parvenu nella galleria dei ritratti dei cortigiani di uno zar invecchiato, tra mammalucchi obbedienti e servitori muti. La sua rozzezza nazionalista e antisistema gli assicurava certe simpatie nel popolino; «Evgenij Viktorovich viene a salvarci» gridavano gli abitanti di un villaggio bombardato dagli ucraini vicino alla frontiera. Ma troppo poco per avere carte buone da giocare nella successione a Putin. Prigozhin si è accorto di esser isolato, che in una autocrazia equivale alla condanna a morte. E ha giocato la carta più rischiosa, il tradimento. Perché, sia detto di passaggio, in una cosa Putin ha ragione, Prigozhin è un traditore. Questo ex bandito (è stato nove anni in prigione ai tempi dell’Unione Sovietica) deve tutto al presidente: ricchezza potere immunità. Il problema del tradimento non è tradire, atto in sé assai facile, ma tradire bene.

Il fattore tempo è il cappio che si stringe attorno al collo di tutti i ribelli, da sempre. Perché gli incerti, i doppiogiochisti, quelli che vorrebbero approfittare del cambio di regime e della confusione ma… all’inizio stanno in guardia, si defilano: negli alti comandi, nei ministeri e nei circoli che contano. Nelle ville di Rubliovka, la zona di Mosca dove vive l’élite, queste sono ore febbrili. Si discute affannosamente sul che fare, ci si prepara a dormire in luoghi segreti (non si sa mai i vecchi metodi della Ceka, i cappotti di cuoio, il bussare all’alba…), si danno disposizioni ai piloti degli aerei privati di tenersi pronti al decollo. Si fanno partire i figli per posti sicuri: «Te l’avevo detto quando è scoppiata la guerra» gemono le signore. I conti nei Paesi amici, Azerbaigian, Turchia, ricevono un’ondata di improvvisi bonifici. È tutta una questione di tempo. Ora è il momento in cui è sufficiente tacere. Ma prima o poi bisognerà pronunciare un inequivocabile sì a uno dei due contendenti. Il dubbio fa bollire i comandi militari, le caserme, al fronte, nei ministeri, nei grattacieli dei colossi del gas e del petrolio. Poi decideranno cosa conviene fare. In una telefonata troppo anticipata a un numero sbagliato passa la linea tra esser domani ministro o carcerato.

Figura singolare quella del padrone della Wagner, esercito privato dell’età della globalizzazione di tutto, anche e soprattutto della violenza. Lo abbiamo sottovalutato questo strano oligarca quando lo definivamo “il Cuoco del Cremlino” perché, tra l’altro, dall’amico Putin aveva in concessione (miliardaria) l’organizzazione a corte di banchetti, ricevimenti e festini per le Loro Eccellenze. E la refezione di innumerevoli scuole, ospedali, caserme.

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