La fine della Seconda Repubblica

Marcello Sorgi

Con Berlusconi muore la Seconda Repubblica, di cui è stato indiscutibilmente uomo simbolo, come Andreotti lo era stato della Prima. Forse bisognerebbe scrivere «muore definitivamente», perché qualcuno potrebbe obiettare: ma non era già morta e sepolta? Sì e no. Nel senso che, finché c’era ancora Berlusconi, l’idea del maggioritario, dello scontro tra centrodestra e centrosinistra, dell’alternanza tra governi scelti dagli elettori non poteva considerarsi finita del tutto. Prova ne sia che uno degli ultimi avversari di Berlusconi, il più civile, il meno demonizzatore, e insomma Veltroni, che da leader del neonato (oggi assai sofferente) Pd lo sfidò nel 2008, perdendo ma con il risultato storico di sfiorare il 34 per cento, ancora adesso, ogni tanto, prova a riaprire il discorso su quel sistema. In quella sorprendente campagna elettorale, Veltroni lo definiva semplicemente «il leader dello schieramento avversario», ottenendo furbamente che votasse per il Pd una parte dei moderati italiani, un target molto studiato, assimilato ai democristiani di sinistra ma non solo. Gli stessi che poco dopo la sconfitta lo fecero fuori, sostituendolo con il dc di sempre Franceschini, per molti anni in servizio come capo delegazione al governo e ministro della Cultura, e solo da pochi mesi all’opposizione.

Berlusconi nel 2008 vinse, anzi stravinse, e in meno di due anni si mangiò la vittoria in una stupida litigata con Fini, suo alleato storico, che alla fine pagò il conto più salato della lite e uscì dalla politica, dopo una modestissima, per lui – leader della destra-destra e uomo che aveva legittimato i post-fascisti portandoli fuori dalla nostalgia del fascismo -, candidatura al centro con Casini, che non riuscì a farlo rieleggere.

A quel punto, la Seconda Repubblica aveva già compiuto quattordici anni, da quell’incredibile 1994 in cui il Cavaliere era apparso sulla scena con il chiaro obiettivo di liquidare la “partitocrazia” della Prima e c’era riuscito, seppure per pochi mesi la prima volta, grazie al Mattarellum, la legge elettorale concepita da un grande esperto della materia, che allora non poteva immaginare che sarebbe stato il successore di Napolitano. Berlusconi, che secondo il suo amico e sodale da una vita Confalonieri era “un sacramento”, un modo di dire milanese per definire uno fuori dal normale, studiò attentamente quella legge assai complicata e ne ricavò che poteva portare al governo “i comunisti”, che pure avevano cambiato nome. Un epilogo da evitare a qualsiasi costo e l’inizio di una nuova vita, la terza, per il costruttore che aveva edificato “Milano 2” e inventato la tv privata in Italia.

Negli stessi giorni, siamo alla fine del ‘93, un professore di scienze politiche poi diventato ministro, il liberale torinese Giuliano Urbani, ebbe lo stesso timore. Chiese udienza all’avvocato Gianni Agnelli e gli illustrò il piano per impedire la conquista del potere da parte degli eredi del Pci: sfruttando la presenza sul territorio della Fiat e scegliendo accortamente i candidati, si poteva evitare lo sbocco temuto in quel momento da tutti i democratici. Ma Agnelli non aveva alcuna voglia di trasformare le concessionarie della sua casa automobilistica in sedi di partito, né di diventare un leader politico, né di affrontare uno scontro con “i comunisti”, che non amava, ma con i quali faceva i conti da molto tempo nelle fabbriche. Così declinò. Non senza segnalare, però, al prof. Urbani, l’uomo che a suo giudizio aveva le qualità e l’apparato necessario per affrontare la sfida: Berlusconi. Per aiutare Urbani, lo chiamò direttamente al telefono, e lo pregò di ricevere il prof. Forza Italia nacque così, con i dirigenti di Publitalia trasformati in agit-prop, Berlusconi leader della campagna, uomini e donne delle sue tv ventre a terra per farlo vincere, e al comando delle operazioni un gran visir poi finito in galera per rapporti con la mafia: Marcello Dell’Utri.

Questa è storia, ormai, nel bene e nel male. Ma ciò che Berlusconi aveva capito, e rimane un’intuizione ancor oggi, è che accanto a quella dei partiti, del sindacati, del cosiddetto mondo collaterale, che governava la raccolta dei voti, con metodi, va da sé, anche inconfessabili, esisteva un’altra Italia, stufa del vecchio sistema, travolto, non solo dai referendum di Mariotto Segni del ‘91 e ‘93, che avevano introdotto il maggioritario, ma dall’inchiesta di Tangentopoli che aveva messo alla sbarra e fatto condannare, con metodi giustizialisti oggi considerati in gran parte inaccettabili, il gruppo di comando del “Pentapartito” e della Prima Repubblica. Un’Italia che non aveva lo stipendio fisso, eppure campava. Un’Italia che aveva preso a modello le tv di Berlusconi, il suo stile di vita, la sua storia personale di piccolo borghese che grazie al suo intuito e al suo coraggio imprenditoriale costruisce un impero e diventa miliardario. Un’Italia che amava divertirsi e non solo lamentarsi. L’Italia di Milano 2 e Milano 3. L’Italia di “Drive in” e dei primi programmi a colori di Canale 5.

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