Il collasso educativo di scuola e famiglia

Da ultimo nelle classi superiori i genitori devono essere tenuti lontano dalla scuola, perché non sono interessati alla formazione dei loro figli, ma unicamente alla loro promozione. E in qualità di sindacalisti dei figli, in assenza di una promozione, ricorrono al Tar. La conseguenza è che, per non avere problemi, gli insegnanti finiscono per promuovere quasi tutti gli studenti a prescindere da chi ha studiato e chi non ha studiato. Invece dell’ora di ricevimento dei genitori gli insegnanti dedichino cinque o sei ore settimanali per ricevere gli studenti. Perché, certo, gli psicologi sono necessari nelle scuole, ma la loro parola non equivale a quella di un insegnante che, ricevendo gli studenti, potrebbe capire cosa passa nella loro testa e nel loro cuore in quell’età incerta che è l’adolescenza, dove l’irruzione delle istanze pulsionali, emotive e sentimentali, le difficoltà del presente e l’ansia per il futuro, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà anche oltre ogni limite si danno convegno per celebrare, sia pure disordinatamente, tutte le espressioni in cui può cadenzarsi la vita.

Se queste considerazioni hanno un loro senso, mi si lasci dire che la scuola italiana, se viene meno a questi compiti, è stata pensata unicamente per dare un posto di lavoro agli insegnanti e non per educare i giovani che si affacciano alla vita. E’ vero gli insegnanti sono pagati poco per il compito educativo che dovrebbero svolgere, ma sono pagati tutta la vita perché sono di ruolo. E se abolissimo il ruolo? Quando un professore non funziona lo sanno gli studenti, i colleghi, il preside, i genitori, ma non lo si può sospendere dall’insegnamento perché è di ruolo. E allora? Gli si dà la possibilità di demotivare gli studenti per tutto il tempo della sua carriera? Non è anche questo un modo di favorire le scuole parificate che non hanno questo vincolo, rispetto alle scuole statali che, nonostante tutto, non finirò mai di difendere? Non so dire quanti sono i giovani che si suicidano in età scolare. Non pochi. So però che in Italia ci sono tre milioni di giovani con disturbi alimentari, due milioni di autolesionisti, duecentomila affetti da quella sindrome hikikomori che li trattiene chiusi nella loro stanza, connessi solo con il loro computer, con la sola prospettiva del suicidio come loro ultimo gesto. I giovani dunque stanno male. E quando bevono (e bevono tanto), quando si drogano, non penso lo facciano tanto per il piacere che possono dare queste sostanze, quanto per il loro effetto anestetico. Le assumono per anestetizzarsi dall’angoscia che provano se sporgono lo sguardo sul futuro che per loro non è una promessa e, se non è una minaccia, è imprevedibile. E quando il futuro non è prevedibile non retroagisce come motivazione. “Perché devo studiare? Perché devo darmi da fare? E al limite perché devo stare al mondo”. Se questo è lo scenario, allora è urgente che scuola e famiglia incomincino a prendere in seria considerazione la loro capacità di cura, assistenza, aiuto.

LA STAMPA

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