L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»

di ORIANA FALLACI

Il colloquio di Henry Kissinger con Oriana Fallaci del 1972, di cui il diplomatico poi si pentì e disse: «La cosa più stupida della mia vita»

L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»
Henry Kissinger ritratto nei primi anni Settanta nel suo ufficio alla Casa Bianca (Ap)

Il più grande diplomatico del XX secolo: Henry Kissinger compie 100 anni. Nato tedesco, arriva negli Usa nel 1938. Da segretario di Stato è l’artefice del disgelo con la Cina. Premio Nobel per la Pace nel 1973. Qui sotto, la storica intervista di Oriana Fallaci, realizzata nel 1972.

Quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato, che chiamavano Superman, Superstar, Superkraut, e imbastiva alleanze paradossali, raggiungeva accordi impossibili, teneva il mondo col fiato sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard. Questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che s’incontrava con Mao Tse-tung quando voleva, entrava nel Cremlino quando ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e gli entrava in camera quando lo riteneva opportuno. Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe. Lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger? […]

La sua biografia è oggetto di ricerche che rasentano il culto e tutti si sa che è nato a Furth, in Germania, nel 1923, figlio di Luis Kissinger, insegnante in una scuola media, e di Paula Kissinger, massaia . Si sa che la sua famiglia è ebrea, che quattordici dei suoi parenti morirono nei campi di concentramento, che insieme al padre e alla madre e al fratello Walter fuggì nel 1938 a Londra e poi a New York, che a quel tempo aveva quindici anni e si chiamava Heinz, mica Henry, e non sapeva una parola d’inglese. Ma lo imparò molto presto. Mentre il padre faceva l’impiegato in un ufficio postale e la madre apriva un negozio di pasticceria, studiò così bene da essere ammesso a Harvard e laurearsi a pieni voti con una tesi su Spengler, Toynbee e Kant, poi diventarvi professore. Si sa che a ventun anni fu soldato in Germania, dove era con un gruppo di GI selezionati da un test e giudicati così intelligenti-da-sfiorare-il-genio, che gli affidarono per questo (e malgrado la giovane età) l’incarico di organizzare il governo di Krefeld, una città tedesca rimasta senza governo. Infatti a Krefeld fiorì la sua passione per la politica: una passione che avrebbe appagato diventando consigliere di Kennedy, di Johnson, e poi assistente di Nixon. Non a caso potevi considerarlo il secondo uomo più potente d’America. Sebbene alcuni sostenessero che era molto più, come dimostrava la battuta che al tempo della mia intervista circolava a Washington: «Pensa cosa succederebbe se morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati Uniti…».

Quindi l’uomo restava un mistero, come il suo successo senza paragoni. E una ragione di tale mistero era che avvicinarlo, comprenderlo era difficilissimo: di interviste individuali non ne dava, parlava solo alle conferenze-stampa indette dalla presidenza. Così, giuro, non ho ancora capito perché accettasse di vedere me, appena tre giorni dopo aver ricevuto una mia lettera priva di illusioni. Lui dice che fu per la mia intervista col generale Giap, fatta ad Hanoi nel febbraio del sessantanove. Può darsi. Però resta il fatto che dopo lo straordinario «sì» cambiò idea e decise di vedermi a una condizione: non dirmi nulla. Durante l’incontro, a parlare sarei stata io e da quel che avrei detto egli avrebbe deciso se darmi l’intervista o no. Ammesso che ne trovasse il tempo. Il che avvenne davvero alla Casa Bianca, giovedì 2 novembre 1972, quando lo vidi giungere tutto affannato, senza sorrisi, e mi disse: «Good morning, miss Fallaci». Poi, sempre senza sorrisi, mi fece entrare nel suo studio elegante e pieno di libri, telefoni, fogli, quadri astratti, fotografie di Nixon. Qui mi dimenticò mettendosi a leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’ imbarazzante restarmene lì in mezzo alla stanza, mentre lui leggeva il dattiloscritto e mi voltava le spalle. Era anche sciocco, villano da parte sua. Però la cosa mi permise di studiarlo prima che lui studiasse me.

E non solo per scoprire che non è seducente, così basso e tarchiato e oppresso da quel testone di ariete: per scoprire, ecco, che non è affatto disinvolto, né sicuro di sé. Prima di affrontare qualcuno, egli ha bisogno di prendere tempo e proteggersi con la sua autorità. […] Al venticinquesimo minuto circa, decise che avevo passato gli esami. Forse mi avrebbe dato l’intervista. […] E alle dieci di sabato 4 novembre ero di nuovo alla Casa Bianca. Alle dieci e mezzo entravo di nuovo nel suo ufficio per incominciare l’intervista più scomoda, forse, che abbia mai fatto. Dio che pena! Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, ossequioso, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco. Poi, proprio sul più bello, mentre egli mi denunciava l’essenza inafferrabile del suo personaggio, uno dei telefoni squillò di nuovo. Era di nuovo Nixon e: poteva il dottor Kissinger passare un attimo da lui? Certo, signor presidente. Scattò in piedi, mi disse di aspettarlo, avrebbe cercato di darmi ancora un po’ di tempo, uscì. E così si concluse il mio incontro. […]

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