Lo Stato, l’autonomia, le Regioni e un bilancio da fare

di Ernesto Galli della Loggia

Non ho mai conosciuto qualcuno che, nato a Roma, non si dicesse «romano» ma «laziale» (che semmai, come si sa, oggi significa perlopiù uno che tifa per la squadra di Ciro Immobile). Egualmente, mai ho sentito un napoletano presentarsi come «un campano» o qualcuno nato a Torino dirsi di primo acchito piemontese invece che torinese. Anche di chi sia nato alla Giudecca scommetterei quello che volete che non gli verrebbe mai in mente di non dirsi veneziano ma «veneto».

Scrivo questo per sottolineare quanto dovrebbe essere noto a tutti: e cioè che storicamente in Italia l’identità cittadina è sempre stata estremamente più forte di quella regionale. «L’Italia è un Paese di città» diceva Carlo Cattaneo: di città con intorno il proprio contado (cioè la provincia). Pochi sanno che in qualche caso i confini e le denominazioni regionali oggi in uso furono addirittura letteralmente inventati subito dopo l’Unità per pure ragioni statistiche.

Anche al momento di scrivere la Costituzione l’istituzione di un ordinamento regionale fu voluta solo dai cattolici in omaggio alla loro antica diffidenza verso lo Stato unitario, e alla fine accettata più o meno malvolentieri anche dagli altri costituenti ma solo come una generica istanza di decentramento di tipo amministrativo. Nulla di più.

Tuttavia, negli anni ‘90 del secolo sorso, in coincidenza con la disintegrazione della Dc e con la crisi della prima Repubblica, una significativa richiesta regionalista — talvolta con un esplicito sottinteso federalista se non addirittura secessionista — emerse nel nord e specialmente nel nord-est del Paese. Fu, come si sa, l’inizio della battaglia della Lega. A proposito della quale va considerato, tuttavia, che dal 1989 ad oggi in nessun turno di elezioni politiche o regionali la Lega stessa ha mai superato a livello nazionale il 20 per cento dei voti, e in trent’anni solamente tre volte essa è riuscita ad andare oltre il 10 per cento (alle politiche del ’96 con il 10,7; alle regionali del 2010 con il 12,28; alle politiche del 2018 con il 17,37). A riprova del consenso evidentemente minoritario che presso l’opinione pubblica ha sempre riscosso e continua a riscuotere quello che è il suo principale tema identitario.

Ancora più strabiliante quindi (in realtà fu un disperato tentativo di togliere comunque voti al centro destra nelle imminenti elezioni politiche) appare la svolta decisa nel 2001 sulla base di una risicatissima maggioranza, dal governo Amato sostenuto dalla sinistra, in particolare dai diesse guidati da Walter Veltroni. Si tratta della svolta che ha riformato il titolo V della Costituzione stravolgendo l’impianto originario del regionalismo. Innanzi tutto attribuendo tanto allo Stato che ai Comuni, alle Città metropolitane, alle Province e alle Regioni il medesimo rango in quanto elementi costitutivi della Repubblica. Il che ha voluto dire che tutti quegli enti substatali hanno perso la loro precedente connotazione di stampo prevalentemente territoriale per diventare, viceversa, attori di primaria importanza nella definizione dell’attività normativa generale, in certi casi anche internazionale, del Paese.

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