Contro il governo Meloni (e il buon senso): gli scivoloni di Landini e della Cgil

Lorenzo Grossi

Se c’è qualcosa che gli ultimi sette mesi di politica italiana hanno evidenziato in maniera inequivocabile, quello è senza dubbio la crisi di nervi di diverse persone appartenenti a vario titolo al mondo della sinistra: non solo tra gli esponenti delle opposizioni parlamentari (Partito Democratico in testa), ma anche all’interno delle organizzazioni sindacali. Tra tutti, quello che è spiccato per una costante ritrosia nei confronti delle misure adottate dal governo Meloni è Maurizio Landini. Da quanto è entrato in carica il nuovo esecutivo di centrodestra (ottobre 2022), a seguito delle elezioni nettamente vinte lo scorso 25 settembre, il segretario generale della Cgil non fa altro che attaccare ogni singolo provvedimento economico messo in piedi da Giorgia Meloni e dai suoi ministri.

Si dirà: è normale che un sindacato faccia sentire la propria voce per difendere fino in fondo le tutele dei lavoratori e, di conseguenza, pungolare i governi affinché ascoltino le loro istanze. Assolutamente vero. Peccato che Landini, durante questo primissimo scorcio di legislatura, abbia varcato spesso il confine che separa ciò che è di buon senso da quello che non lo è. Sfiorando, da questo punto di vista, la ridicolaggine.

Landini contro il merito

Nemmeno il tempo che il governo Meloni si potesse quantomeno insediare a Palazzo Chigi che subito la Cgil tuona contro l’istituzione del ministero dell’Istruzione e del Merito: “Trovo sia sbagliato, quando parliamo di istruzione in un Paese dove c’è questo livello di diseguaglianze, introdurre la parola ‘merito’ – afferma Landini il 24 ottobre -. Rischia di essere uno schiaffo in faccia per chi può avere tanti meriti ma parte da una situazione di diseguaglianza”. Il rifiuto aprioristico del merito come principio viene subito stroncata anche da noti anti-meloniani convinti come Carlo Calenda, il quale bolla il rifiuto di Landini come una presa di posizione “assurda e antistorica”.

I ministri del centrodestra giurano sulla Costituzione davanti a Mattarella a pochissime settimane dalla potenziale entrata nell’esercizio provvisorio del nostro Paese qualora non fosse stata approvata la manovra economica entro la fine del 2022. L’esecutivo licenzia una legge di bilancio pulita a tempi di record e modellata soprattutto sui tagli del caro energia. Il leader della Cgil, però, non accetta minimi compromessi e paventa un immediato sciopero nazionale dei lavoratori contro un governo che non aveva nemmeno un mese di vita: “È evidente che dobbiamo pensare a qualsiasi iniziativa e, siccome i tempi sono molto stretti, dobbiamo pensare anche a forme creative di mobilitazione”.

Le figuracce su rdc e Urss

Landini difende strenuamente il reddito di cittadinanza e a fine dicembre arriva persino a reputare che “il disegno governo è quello di farlo saltare” in modo tale da “fare cassa così, colpendo i più deboli”. Il presidente del Consiglio gli replica a stretto giro: “Sento in giro ante menzogne sul rdc: noi tuteliamo chi non può lavorare, tutti gli altri non possono aspettare il lavoro dei sogni. Non puoi pretendere che ti mantenga lo Stato con le tasse pagate da chi ha accettato un lavoro che spesso non era il lavoro dei sogni”. Quella frase pronunciata in tv nello studio di Porta a Porta fu l’annuncio di quello che poi si è effettivamente concretizzato con il freschissimo decreto Lavoro.

Che la Cgil vada nel pallone più totale in pieno inverno lo dimostra la clamorosa gaffe che ha caratterizzato il congresso della sezione di Bologna tenuto a San Lazzaro di Savena: ovvero l‘inno dell’ex Unione Sovietica utilizzato come tappeto musicale per festeggiare l’evento del sindacato rosso. Nessuno sdegno, anzi: applausi e pugni chiusi, con Landini che partecipa volentieri al revival senza spiccicare una mezza parola sull’accaduto. E scappa più di qualche sorriso. L’organizzazione parlerà di un “mero errore materiale della regia”, ma l’episodio in sé denota come, su certe ideologie, passano decenni ma evidentemente nulla cambia. Almeno per la Cgil.

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