Quel miraggio presidenziale che non funziona ma piace all’Italia

Eppure – e sono alla terza volta che scrivo questa parola – eccetto per un breve lasso di tempo, un pugno di mesi, meno di quattro pur brevi anni alla Casa Bianca, la ricetta Trump non funziona più. L’uomo ha perso la rielezione, ma anche le Midterm. Soprattutto ha perso in questo processo il suo stesso partito, che aveva rigenerato e che adesso lo considera un «perdente». Come perdenti sono stati tutti i suoi candidati alle Midterm, appunto. Dietro quei voti non ricevuti in queste sconfitte, i Repubblicani hanno subito intravisto i danni dell’eccesso, dello scontro frontale, della strada insomma intrapresa il 6 gennaio del 2021 a Capitol Hill che nessuna famiglia o madre per quanto appassionata potrebbe immaginare di prendere. E hanno di nuovo riafferrato il capo dell’orgoglio della cittadinanza Usa, fatta, semplicemente, dalla impossibilità di offendere le proprie istituzioni.

Questo è il punto in cui l’ex Presidente si trova, in un ennesimo tentativo, lo sfoggio del proprio eventuale «arresto», di mobilitare i suoi seguaci con impennate di trucchi mediatici. Più che le strade di Washington Donald sembra essere avviato sul viale del tramonto.

Anche su Parigi sembrano essersi abbassate le luci. Macron non ha avuto un percorso facile, nella lunga lista degli Inquilini dell’Eliseo, è stato però forse la figura più innovativa – per profilo e per audacia politica. Con il suo inventarsi sempre partite nuove di rilancio. Come quella che lo ha portato a voler a tutti i costi portare a casa la riforma delle pensioni, pur di non cedere «alla piazza». È questa «la forzatura democratica» che, contro ogni previsione, probabilmente dello stesso Macron, non è stata accettata. Questa «forzatura democratica» è infatti uno strumento più che abusato: 11 volte nel solo governo dell’ex socialista Élisabeth Borne. Dunque, come dice su «Le Monde diplomatique» Grégory Rzepski, i cittadini «non hanno mai votato per lo smantellamento delle Poste, dell’università o delle linee ferroviarie di piccole e medie dimensioni. In tutti i casi, il deterioramento della qualità dei servizi forniti ha costretto gli utenti a ricorrere a servizi sostitutivi: tecnologia digitale, car pooling, istruzione superiore privata. O i risparmi per la pensione».

Come precisa, in un denso articolo de Il Mulino Francesca Barca, ricordando che «c’è un movimento di dissenso in Francia, che si alimenta e cresce da tempo. Forte o debole, silenzioso o rumoroso, a volte discontinuo. Certamente diverso e multiforme, nelle pratiche e nelle visioni», e che in maniera carsica dura da tempo. «Le mobilitazioni in corso contro la riforma delle pensioni fanno eco, nella memoria collettiva e nella pratica, a quelle del 1995 contro un’altra riforma previdenziale», e quelle «fortissime, che hanno bloccato Parigi anche nel 2019, sempre per una riforma delle pensioni, sempre promossa dallo stesso governo».

Queste proteste si sono fermate nel 2019 per la pandemia, così come il movimento dei gilet gialli. La fine degli anni del Covid assume, attraverso questa riforma, un significato in termini sociali: «Tutti e tutte devono lavorare di più. Perché non può essere diversamente. Perché occorre sacrificarsi. Questo nel momento in cui escono i dati sulla crescita dei dividendi delle imprese nel mondo. Proprio la Francia ha visto la crescita maggiore in Europa: 59, 8 miliardi di euro (+4, 6%), per TotalEnergies e LVMH, che garantiscono i dividendi più alti ai loro azionisti. Con il 95% delle società francesi (dati Janus Henderson, fonte OuestFrance) che ha aumentato o mantenuto i dividendi del 2022».

Ma anche un significato in termini politici: «Siamo di fronte a una crisi di regime, perché è il principio stesso della rappresentanza del popolo da parte di rappresentanti eletti, quello ereditato dal 1789 e su cui si basano le nostre istituzioni, a essere messo in discussione. L’idea stessa del voto si sta esaurendo, non è più sufficiente a creare un legame duraturo», dice su le Monde Dominique Rousseau, professore di Diritto pubblico all’Università di Parigi-I-Panthéon-Sorbonne. «Il 49. 3 è la traduzione istituzionale dell’adagio «Non è la strada che governa», ma da diversi anni ormai c’è una richiesta da parte dei cittadini di essere più coinvolti. Questo crea qualcosa che va oltre la crisi politica». Questa ultima citazione è sempre parte del saggio su Il Mulino di Francesca Barca. La domanda è: cosa è che va oltre la crisi politica?

Dalla Francia si arriva quasi immediatamente alla questione che anima anche la protesta di Israele. Curiosamente, infatti, in entrambi i paesi è una questione istituzionale a infiammare gli animi.

La ragione della sensibilità israeliana a queste questioni ha molto a che fare con il senso dello stato che anima Israele: un senso nutrito dalla tradizione e, anche qui, dall’etica collettiva di uno stato che pure nel mezzo delle sue peggiori scelte – la guerra permanente ai palestinesi innanzitutto – ha sempre tenuto alta l’idea di essere una democrazia. L’esempio di quello che dico è in una data, il 1982, che è anche l’ultima volta che si è visto un raduno grande come quelli di queste settimane: 400mila pacifisti si radunarono allora per chiedere una commissione d’inchiesta sul massacro di Sabra e Chatila.

Un’identità istituzionale di Israele venuta a cozzare negli anni sempre più con la componente di una destra estrema presente nella vita politica del paese come opzione religiosa e come opzione militare. Il nodo è venuto al pettine con la formazione del governo di Netanyahu che è il più a destra nella storia della nazione. Un nodo che rimanda a molti altri, mai sciolti in un paese che fa delle differenze la propria storia. Da un lato l’intero sistema giudiziario israeliano, una delle tradizionali roccaforti della struttura dello Stato (per decenni considerata uno dei pilastri ashkenaziti), dall’altra il sionismo religioso. E sarebbe errato pensare che questa divisione può passare come quella fra modernità e tradizione. Sono due tradizioni forti di Israele che si scontrano, e la rottura sullo sfondo, costituisce per Israele anche una esposizione al pericolo reale di un suo indebolimento militare.

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Fin qui le storie di questi tre paesi. È una grande linea di sommovimento, la cui durata, le cui ragioni, sono per ora ancora intuibili ma non del tutto ancora studiate e comprese. Se si pensa che avvengono in contemporanea a una grande guerra in Europa, in Ucraina, se si prova a mettere in fila anche la trasformazione rapida di confini, poteri, distribuzione di ricchezza e, perché no? , della percezione umana, siamo di fronte a un grande cambiamento.

Una sola lezione esce invece chiara da queste storie: se la democrazia tradizionale è indebolita, l’uomo solo al comando non ne è la soluzione. Il Presidenzialismo, o il Premierato forte, danno la possibilità a un uomo di poter decidere per tutti – ma alla fine questo uomo avrà ancora e sempre milioni di cittadini di fronte. Da convincere

LA STAMPA

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