Rinunciare al Mes, scelta perdente

Il motivo è presto detto. Alcuni Stati, in particolare quelli del Nord, chiedono che un’ulteriore condivisione dei rischi venga preceduta da una loro riduzione: chi ha un debito pubblico elevato deve diminuirlo in modo da limitare l’esposizione di chi lo detiene, a cominciare dalle banche. Al contrario, altri Paesi – quelli del Sud – ritengono che i rischi si riducano proprio condividendoli. Lo stallo a cui si assiste oramai da anni dimostra – ancora una volta – che il freno principale alla costruzione europea è la mancanza di fiducia. E qui veniamo al Mes. Come si è visto, il Fondo di risoluzione unico ha una dimensione limitata e, peraltro, la messa in comune delle risorse avverrà solo nel 2024. In caso di crisi sistemica potrebbe non essere sufficiente. Per questo, nel novembre 2020 il Trattato del Mes è stato rivisto con lo scopo di dotarlo di uno strumento nuovo. Ossia, la possibilità di affiancare il Fondo di risoluzione con risorse aggiuntive. In questo modo, verrebbe creata una vera e propria rete di protezione volta a bloccare il contagio finanziario. L’Italia, come è noto, è l’unico Paese che non ha ancora ratificato la suddetta riforma: lo ha fatto persino la Croazia, che ha aderito alla moneta unica solo qualche mese fa. Sul conto del Mes sono state dette molte inesattezze. Sia da chi oggi è al governo, sia da chi è all’opposizione. Durante il Covid, l’ex premier, Giuseppe Conte, si rifiutò di attivare la linea di credito messa a disposizione dal Meccanismo perché ciò avrebbe dato luogo a “un effetto stigma”, ossia si sarebbe segnalato ai mercati finanziari la necessità di ricorrere un aiuto esterno. In realtà, si sarebbe semplicemente formalizzata la volontà di risparmiare visto che i tassi dei prestiti erogati dal Mes erano inferiori a quelli del nostro debito. Ma tant’è.

Questa posizione è condivisa dall’attuale premier. Meloni continua a ripetere che non attiverà il Mes nonostante non sia più possibile: la linea di credito pandemica è scaduta lo scorso anno. Negli ultimi giorni, ha fornito un ulteriore elemento spiegando che “il Mes non serve”. Questa affermazione lascia perplessi perché sottovaluta un aspetto di cruciale importanza. Il Mes è uno dei pochi strumenti comuni: andrebbe rafforzato, non denigrato. L’area dell’euro è un’unione monetaria ma non un’unione fiscale. Pertanto, non dispone di una capacità di bilancio comune da utilizzare in caso di crisi. Una differenza sostanziale rispetto agli Stati Uniti, dove l’amministrazione Biden è potuta intervenire in soccorso della Silicon Valley Bank utilizzando i soldi dei contribuenti. Il Mes riformato potrebbe impiegare risorse di tutti gli Stati membri. In assenza di un simile strumento, si dovrebbe ricorrere a fondi nazionali. Di conseguenza, chi oggi – a cominciare dall’Italia – dispone di uno spazio di bilancio esiguo (ossia debito pubblico elevato) avrebbe margini di manovra ristretti. Ciò si tradurrebbe in una minore tutela delle proprie banche. E, soprattutto, dei propri risparmiatori.

In altre parole, la scelta di non ratificare il Mes effettuata dall’attuale governo – ma condivisa dai precedenti esecutivi Draghi e Conte due – priva l’Unione di un prezioso strumento comune. Il paradosso è che ciò penalizza – innanzitutto – la nostra economia.

LA STAMPA

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