Gli errori che Meloni non deve fare nella sua campagna d’Africa

di Andrea Bonanni

Giorgia Meloni ha scoperto una vocazione africana. Una rivelazione avvenuta fortunatamente non nel segno dei suoi antenati politici, ma in quello dell’ex partigiano e fondatore dell’Eni Enrico Mattei, precursore del sovranismo energetico quando il sovranismo energetico aveva un senso e un futuro. Domani la premier sarà a Tripoli, dove l’Eni firmerà un contratto da otto miliardi di dollari per lo sfruttamento di due giacimenti di gas al largo delle coste libiche. Pochi giorni fa ha concluso una visita di Stato in Algeria, che è ormai il nostro primo fornitore di metano, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani è appena tornato dall’Egitto dove ha concordato nuovi acquisti per tre miliardi di metri cubi di gas.

Questo attivismo del governo italiano si inquadra in quello che Meloni ha definito “il piano Mattei”: un progetto strategico che secondo lei dovrebbe articolarsi nel corso di tutta questa legislatura. In sostanza, visto che la guerra in Ucraina ha spostato l’asse della dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia all’Africa, l’Italia si propone di assumere un ruolo da protagonista in questa nuova fase diventando un hub, cioè uno snodo cruciale da cui far passare una gran parte dei 400 miliardi di metri cubi di gas all’anno che servono all’Europa per scaldare le case, alimentare le industrie e illuminare le strade. E non si parla solo di metano, ma anche dell’elettricità e dell’idrogeno che in prospettiva l’Africa produrrà ed esporterà grazie all’energia solare.

Messo in questi termini, il progetto è indubbiamente meritevole, purché non diventi un esercizio di nazionalismo e di sovranismo mascherato. Per decenni, dai tempi appunto di Mattei che sponsorizzò l’indipendenza algerina, la politica energetica dell’Italia verso il Nord Africa è stata improntata ad una costante competizione con la Francia. In nome di questa rivalità, l’Europa si è giocata la Libia, che ora è controllata in parte dalla Russia e in parte dalla Turchia. E non è mai riuscita ad esercitare pienamente la propria influenza politica e il proprio magistero democratico sulla regione, che rimane relativamente instabile ed estranea ai canoni della democrazia europea.

Come aveva ben capito Mario Draghi, se davvero l’Italia ambisce a diventare lo snodo energetico dell’Europa, questo genere di competizione tra capitali deve cessare. Per almeno tre motivi. Il primo è che abbiamo bisogno dell’Europa non solo per venderle l’energia africana, ma anche per produrla. Il progetto “Global Gateway”, che Bruxelles ha appena varato in competizione con la “Belt and road initiative” cinese, punta a mobilitare investimenti pubblici e privati per 300 miliardi di euro nei prossimi cinque anni destinati ai Paesi in via di sviluppo e principalmente all’Africa. E sarà centrato soprattutto sulla creazione di grandi infrastrutture per la produzione e il trasporto di energia pulita, dall’elettrico all’idrogeno. Per ritagliarsi un ruolo da co-protagonista in questa avventura all’Italia, più che l’amicizia con i leader africani, serve l’amicizia con i leader europei.

Il secondo motivo è che non basta la geografia a disegnare il ruolo, come abbiamo appreso a nostre spese quando pretendevamo di essere “la portaerei del Mediterraneo” alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Come ha ricordato l’ad di Eni Claudio Descalzi, per diventare un “hub energetico” c’è ancora molto lavoro da fare: dal gasdotto lungo la dorsale adriatica ai rigassificatori nei nostri porti, alle connessioni per l’elettricità e il gas con Svizzera, Austria e Germania. E bisogna farlo in fretta, perché su questo terreno gli altri Paesi europei, dalla Spagna alla Francia, dal Portogallo alla Germania, si stanno muovendo più veloci di noi.

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