La mafia borghese di Messina Denaro: niente lupare, ma politici, manager, massoni e imprese a caccia di finanziamenti pubblici

RINO GIACALONE

TRAPANI. Sfogliando pagine conservate nell’Archivio di Stato o quelle anche di recenti sentenze di condanna, si scopre il comune denominatore che unisce questa terra trapanese, incastonata nella Sicilia più occidentale, a cavallo di tre secoli: la sommersione del potere mafioso. Le commistioni con i poteri pubblici, sia quando erano teste coronate a governare, sia quando l’Italia è rinata repubblicana e democratica. Trapani e quella incarnata cultura secondo la quale la mafia non esiste. Ancora più forte questa certezza quando arrivano certe condanne, per corruzione o collusione: accadde nel 1908 quando per peculato fu condannato il ministro, e massone, Nunzio Nasi; è accaduto ai nostri giorni, quando qualche settimana addietro è diventata definitiva la condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex sottosegretario berlusconiano Tonino D’Alì, oggi detenuto a Milano. D’Alì i Messina Denaro li conosce bene, erano i suoi campieri nel suo latifondo di Castelvetrano. Tra questi secoli si cela il potere mafioso trapanese, esistito avendo la capacità di far negare la sua esistenza. La mafia qui non la trovi mai nelle campagne, come a Corleone, ma dentro i palazzi anche nobiliari. Cosa Nostra da queste parti ottiene quello che vuole senza sparare, fa affari con gli appalti e si siede nei salotti che contano.

Ma a Trapani la mafia non esiste. Lo disse un sindaco nel 1985 dinanzi ai corpi straziati della strage di Pizzolungo. La mafia è una meteora che si vede quando uccide (si legge in un giornale del 1864) o è un Uffizio (come scrisse nel 1838 il prefetto Ulloa) dinanzi al quale tanti si prostrano anche per certe fratellanze. Sembra la descrizione che viene fuori ancora oggi dalle carte delle indagini su Matteo Messina Denaro: mafia, politica, massoneria e talvolta anche la Chiesa. I due più famigerati Messina Denaro, Francesco e Matteo, padre e figlio, avrebbero trascorso la loro prima parte della latitanza nella canonica di una chiesa di Calatafimi. Negli anni ’80 ci sono le parole di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Conoscono bene Trapani, Falcone qui cominciò la carriera, Borsellino è stato procuratore a Marsala: a Palermo, raccontarono, c’è la mafia militare; a Trapani quella economica. A Trapani non ci sono coppole e lupare, ma manager, imprenditori, anche non punciuti ma legati a Cosa Nostra, da pari, senza sudditanza. A metà degli anni ’80 la Squadra Mobile scopre dietro la copertura di un circolo culturale la sede di alcune logge massoniche segrete: tra gli iscritti, mafiosi, professionisti, uomini delle istituzioni, dell’impresa e della finanza. Anni dopo un altro magistrato, Andrea Tarondo, in una requisitoria evidenzia un dato reale, l’assenza di denunce per estorsioni, «qui – affermò – le imprese pagano ma non il pizzo, semmai la quota associativa a Cosa Nostra, così da avere aperte tutte quelle porte che al contrario resterebbero loro chiuse». Qui la mafia è stata sempre legata alle sue origini, mantenendo la caratteristica della sommersione e la connotazione borghese, niente coppole ma uomini in grisaglia. La mafia, si legge in decine di sentenze, è fatta da latifondisti, imprenditori, politici scoperti essere uomini d’onore riservati.

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