Nomine, il ribaltone della Meloni

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. La prima decisione delicata per Giorgia Meloni riguarda il direttore generale del Tesoro, forse il più importante dei funzionari dello Stato: la maggioranza chiede all’unisono la rimozione di Alessandro Rivera, ma il ministro Giancarlo Giorgetti gli fa scudo. A gennaio, allo scadere dei novanta giorni previsti dalla legge sullo spoil system, si conoscerà il suo destino. Chiusa la legge di Bilancio e rispettata la scadenza per ottenere la terza rata del piano nazionale delle riforme, di qui a primavera per la premier si apre la stagione delle nomine: almeno settanta, per citare le più importanti. Per Meloni, prima donna e primo leader della destra alla guida del governo, sarà uno stress test di tenuta politica, dentro e fuori il palazzo. Il caso di Rivera è emblematico perché fin qui a suo favore ha prevalso la difficoltà a trovare un’alternativa valida. Gianni Letta, gran ciambellano di Berlusconi e tessitore dei rapporti con il cosiddetto “deep State” non c’è più. Fatta eccezione per il ministro della Difesa Guido Crosetto, nella cerchia stretta della premier nessuno ha confidenza con le elite dell’industria e della finanza.

L’unico nome fin qui circolato per la successione a Rivera è quello di Antonino Turicchi, nel frattempo (e non a caso) scelto da Giorgetti per la presidenza di Ita. «Se va in porto l’operazione di vendita a Lufthansa, lo liberiamo in fretta», spiega un esponente della maggioranza sotto la garanzia dell’anonimato.

Il passaggio successivo in ordine di tempo saranno i vertici di quattro enti pubblici: Agenzia delle Entrate, delle Dogane e del Demanio, la presidenza dell’Inps. Ernesto Ruffini, signore delle tasse dai tempi del governo Renzi, è uno dei pochi che potrebbe salvarsi dal gran rimescolamento. Gode della stima di Giorgetti e del suo vice (di Fratelli d’Italia) Maurizio Leo, ma soprattutto del Quirinale, non invece di Matteo Salvini che vuole ovviamente dire la sua nelle nomine. Se quest’ultimo si impuntasse, potrebbe essere scelto uno fra i vice di Ruffini, Paolo Savini o Valerio Barbantini. Sono invece scontate le sostituzioni di Marcello Minenna e Alessandra Dal Verme. Il primo, lambito da un’inchiesta giudiziaria, è considerato troppo vicino ai Cinque Stelle. Potrebbe essere sostituito da Benedetto Mineo, che tornerebbe sulla poltrona occupata durante il governo gialloverde. Fra aprile e maggio dovrebbe scadere invece il mandato del presidente dell’Inps Pasquale Tridico, noto come il padre del reddito di cittadinanza. Anche in questo caso la sostituzione è quasi certa, salvo che per un problema non banale di forma. Tridico, voluto da Luigi Di Maio nella primavera del 2019, è rimasto quasi un anno alla guida dell’Istituto di previdenza senza consiglio di amministrazione. Ebbene, la legge che governa la scelta dei vertici Inps non chiarisce se il mandato scada dopo quattro anni dalla nomina, o insieme al consiglio. L’allora ministro Andrea Orlando chiese un parere all’Avvocatura dello Stato, mai reso pubblico. Anche nel suo caso occorre trovare un’alternativa che al momento non c’è: l’unico membro del consiglio in carica vicino al centrodestra era Rosario De Luca, dimessosi un minuto dopo la nomina a ministro della moglie (e già numero uno dei Consulenti del lavoro) Marina Calderone.

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