Una destra sospesa fra Tambroni e Berlusconi

MASSIMO GIANNINI

Lo confesso. Guardando la conferenza stampa di Giorgia Meloni, venerdì sera, ho pensato per un attimo a Draghi. Dal suo buen retiro di Città della Pieve, Super Mario si sarà goduto lo spettacolo. Sentire la nuova premier che, già molto stanca, annuncia un pacchetto da 32 miliardi contro il caro-bollette, fatto almeno per un terzo dal maggiore spazio fiscale lasciato in eredità dal suo governo, deve essere stata una vera soddisfazione. Ascoltare la Sorella d’Italia che sulla legge di bilancio e sui conti pubblici assicura un approccio “prudente, realistico e sostenibile”, deve essere stato un grande sollievo. Vederla abbassare un po’ lo sguardo, mentre chiarisce che sul Pnrr “introdurremo solo aggiustamenti per spendere le risorse nel migliore dei modi” e che “riprenderemo le attività per alcune concessioni finalizzate alla produzione di gas italiano”, deve essere stata una bella rivincita. L’esecutivo ha giurato nelle mani del Capo dello Stato sabato 22 ottobre. Sono dunque trascorse due settimane esatte dall’ingresso a Palazzo Chigi. E sono apparse altalenanti, contraddittorie a tratti un po’ schizofreniche. In generale, si conferma l’impressione della vigilia: come nell’Uomo senza qualità di Musil, quella di Giorgia è “Azione Parallela” e si svolge su due piani distinti, in virtù di una chiara forma di scissione psico-politica. Lo dico con tutto il rispetto per la Presidente del Consiglio. Sulle questioni interne prevale la “Ducetta”, che lascia si sprigionino gli spiriti animali non del capitalismo (non è mai stata quella la tazza di tè della cultura ex missina) ma di quello che Massimiliano Panarari definisce “l’identitarismo”. Viceversa, sulle questioni internazionali dove si gioca il profilo geo-strategico dell’Italia e dove il “vincolo esterno” è più incisivo e cogente, si impone la “Draghetta” (copyright Dagospia), che agisce in un quadro di compatibilità con gli impegni comunitari e di continuità con le scelte di chi l’ha preceduta.

La “capatrena” di Fdi deve ancora elaborare una sua idea di destra, cercando di non farsi risucchiare dai due estremi possibili che si trova alle spalle: la truce riedizione del modello Tambroni, o la stanca prosecuzione del modello Berlusconi. Per ora, impensieriti e incuriositi, assistiamo alla “doppiezza meloniana” che, come fu per quella togliattiana, inquieta e al tempo stesso conforta. Inquieta perché accelera la pericolosa deriva polacca di cui abbiamo scritto più volte: quella cioè di uno Stato assolutamente fedele ai principi dell’atlantismo e dell’europeismo, ma pericolosamente permeabile alle spinte tese a comprimere i diritti sociali e civili. La gestione del dossier migranti è una regressione insopportabile: ci riporta indietro di quattro anni, al gabinetto gialloverde del 2018, quello dei “muscoli del Capitano” che chiudeva porti, aboliva protezioni umanitarie, sbaraccava Sprar. La legge sui rave-party è una sbobba indigeribile, da tutti i punti di vista. Linguistico: è scritta in un italiano posticcio, e sarebbe bello sapere quale “mente raffinata” del nuovo Deep State l’abbia partorita. Giuridico: è talmente vaga da risultare applicabile a qualunque fattispecie, dalle occupazioni al liceo ai picchetti in fabbrica, nonostante le garanzie farlocche fornite dal ministro-prefetto Piantedosi, dal quale la suddetta applicazione non dipende in alcun modo. Costituzionale: non si vede la “necessità ed urgenza” di un decreto sui rave, neanche ce ne fosse uno al giorno con decine di ragazzi morti per overdose, e almeno su questo il Presidente della Repubblica qualche avviso ai naviganti avrebbe potuto lanciarlo. Morale: si spara ai passeri con il cannone, sei anni di galera per una notte a ballare in un capanno abusivo sono un’aberrazione in un Paese in cui gli stupratori prendono tre anni. Meloni può anche andare “fiera” del provvedimento, ma per ora ha raccolto solo critiche, dall’opposizione e persino dalla sua stessa maggioranza. E può anche rivendicare la sua svolta Law and Order, ma con le sicure correzioni che saranno apportate al testo nell’iter di conversione la “Nuova Italia” si dimostra quella che lei stessa dichiara di aver superato: la “Repubblica delle banane”.

Tuttavia la doppiezza meloniana è anche confortante. Se patisce strappi e spallate la “sovrastruttura” (ammesso che, marxianamente, si possano definire tali i principi dello Stato di diritto), viene mantenuta in relativa sicurezza la “struttura” (cioè il rispetto e l’assunzione delle responsabilità condivise in politica estera e in politica economica). Il maggior deficit necessario a coprire le misure di sostegno per famiglie e imprese colpite dalla crisi energetica (5,6 per cento del Pil quest’anno, poi ridotto al 4,5 nel 2023, al 3,7 nel 2024 e al 3 nel 2025) è concordato con la Commissione Ue. Gli “ulteriori segnali” annunciati per la manovra d’autunno (da quota 41 sulle pensioni al taglio di 5 punti del cuneo fiscale) non scaturiranno dai “corposi scostamenti di bilancio” sperati da Salvini, ma saranno ricavati da risparmi su altri capitoli di spesa o da nuove fronti di entrata, anche questo nel rispetto della road-map negoziata a Bruxelles. Persino la sorprendente ripresa delle attività di trivellazione in Adriatico, funzionale alla fornitura a prezzi calmierati di “1-2 miliardi di metri cubi di gas” alle aziende energivore, riflette la volontà di reperire risorse senza sfasciare la finanza pubblica. È una svolta importante, e niente affatto scontata. Era stata proprio la premier ad avvisare la sua squadra, nel primo Consiglio dei ministri: “Saremo ricordati per la crescita del Pil e per l’aumento dei posti di lavoro”. È essenziale continuare ad esserne consapevoli, e a tener conto che i soldi non li troveremo sotto l’albero. La bolletta di ottobre è stata clemente, ma già da novembre la stangata sarà pesante. La stessa cosa vale per i prezzi di tutte le materie prime e dei beni di prima necessità, che continueranno a crescere perché, come avverte Kenneth Rogoff sull’ultimo numero di Foreign Affairs, “questa inflazione non è passeggera ma è destinata a durare a lungo”, e costringerà le banche centrali a tenere i tassi di interesse sempre più alti.

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