Cosa dirà oggi Draghi al Senato

di Francesco Verderami

La chiamata con il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky è la prova che il capo dell’esecutivo non intende rompere gli equilibri internazionali in un periodo delicato

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La sequenza di incontri con i leader della maggioranza può essere considerata un indizio sulle intenzioni di Draghi di trovare un modo per ritirare le sue dimissioni. Ma è la telefonata con Zelensky a costituire la prova che il premier vuole evitare soprattutto di rompere gli equilibri internazionali, di cui per la sua parte è garante con gli alleati occidentali. Sono, per dirla con un autorevole esponente del Copasir, «gli impegni geo-politici assunti con i partner» che lo hanno portato ieri a lavorare per una soluzione della crisi: «È qualcosa che va oltre le volontà individuali».

Così, se per un verso la politica nazionale cerca di imporre le sue regole al capo del governo, le questioni internazionali — con la crisi ucraina e le tensioni con Russia e Cina — appaiono vincolarlo al suo ruolo. E Draghi il suo ruolo sembrerebbe volerlo onorare, anche perché avrebbe un «rammarico personale» qualora dovesse lasciare il governo, «vista la piega positiva che sta prendendo la guerra». Perciò — se ci saranno le condizioni — si propone di guidare il Paese «fino alle elezioni di marzo» con un programma basato «su una serie di priorità» che illustrerà stamane all’interno di un discorso «molto netto» e che la coalizione dovrebbe accettare per completare l’ultimo tratto della legislatura. È in fondo quel che gli chiede Mattarella, che ieri lo ha ricevuto e lo ha nuovamente esortato ad andare avanti.

Il punto è che il premier vede com’è ridotta la sua maggioranza, che in questi giorni di «riflessione» invece di compattarsi si è ulteriormente sfilacciata. Ed è evidente che gli interessi contrapposti dei partiti in vista delle elezioni confliggono con il disegno del presidente del Consiglio. Già solo sul metodo da adottare in vista del passaggio alle Camere non c’è convergenza. Draghi infatti intende arrivare stamattina a Palazzo Madama con un quadro politico già chiaro, che gli consenta poi di formalizzare la sua decisione. Il segretario del Pd invece, ancora ieri sera, sottolineava che le conclusioni «si trarranno dopo il dibattito». Come a voler lasciare aperta una porta a Conte.

Ecco perché Letta ha chiesto di essere ricevuto da Draghi, siccome il leader dem considera M5S un alleato indispensabile per poter competere con il centrodestra alle elezioni. Già l’incontro, che persino esponenti del Pd giudicano «un errore di grammatica politica», ha scatenato la reazione del centrodestra di governo. Ma ha anche irritato e non poco gli scissionisti grillini e il ministro Di Maio. Provocando un effetto domino. Conte, sapendo che Salvini e Berlusconi non accettano di sedere più in maggioranza con lui, medita a questo punto di votare tatticamente la fiducia.

È in questo ginepraio che deve muoversi il premier, tra i sospetti di Salvini e Berlusconi che temono un «processo di politicizzazione di Draghi», una sorta di «mutazione montiana» che lo porterebbe addirittura a scendere in campo alle elezioni. Ed è per questo che ieri sera la delegazione del centrodestra di governo si è presentata a Palazzo Chigi con una serie di richieste da far impallidire il documento di 9 punti di Conte .

Il presidente del Consiglio ha fatto sapere di non accettare «condizioni e ultimatum» da nessun partito e che intende muoversi seguendo una rotta che dovrà essere condivisa dagli alleati. Ieri sera non aveva ancora deciso se presentarsi dimissionario alle Camere, imponendo alla maggioranza di chiedergli di tornare sui suoi passi, o se attendere l’esito del dibattito per trarne dopo le conseguenze.

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