Draghi, Mattarella e i dubbi sulla crisi

Ilario Lombardo

Quella risposta – «Lo chieda al presidente Mattarella» – spalanca un interrogativo che in questi giorni di turbolenze è tornato e ritornato un po’ sottotraccia. Fino a che punto le prospettive di Mario Draghi coincidono con quelle di Sergio Mattarella? Sarà per la nettezza con cui il premier ha replicato alla domanda sulla verifica di governo, sarà perché, sponda Pd, circolano insistenti le voci su una certa diversità di vedute, ma in conferenza stampa Draghi ha detto un’ovvietà, perché è sempre il presidente della Repubblica a decidere se rimandare un premier in aula, ma l’ha detta con una sfumatura che è sembrata tradire anche altro. Soprattutto se si segue il filo del ragionamento di Draghi e quello che afferma dopo: «Ho già detto che per me non c’è un governo senza M5s e che non c’è un altro governo Draghi» oltre a quello attuale. L’ex presidente della Bce conferma quanto sostenuto dodici giorni fa. Ribadisce la sua indisponibilità ad andare avanti senza quello che fino al 21 giugno, fino alla scissione di Luigi Di Maio, era il primo partito in Parlamento, e aggiunge che non ci sarà un Bis in questa legislatura. Nonostante la scialuppa degli scissionisti. Perché non è una questione di numeri.

È la condizione che il presidente del Consiglio ha posto sin dall’inizio, e con cui deve fare i conti Mattarella nell’ingegnarsi sui possibili scenari. Nulla di personale, sia inteso. Fonti di Palazzo Chigi e del Quirinale non fanno che confermare l’ottimo rapporto tra i due. Si sentono spesso, e spesso è Draghi a chiamare il Capo dello Stato per confrontarsi. Ma restano le differenze, di storia, di ruolo, di formazione, di indole. Il presidente della Repubblica vorrebbe evitare traumi. Draghi però, sul punto è risoluto. Chi lavora a stretto contatto con l’ex presidente della Bce riconosce in lui una caratteristica, che in politica può anche rivelarsi un limite. Ha una sola parola. Difficile cioè che si infili nei bizantinismi di chi dice mezze verità per coprire una bugia, pronto ogni giorno a ripensamenti e marce indietro. In un anno e mezzo di governo, effettivamente, i leader di maggioranza e i ministri non hanno avuto molte controprove per dire che non sia così. Eppure, è proprio nei partiti della coalizione che fino a ieri pomeriggio davano per scontato che Draghi avrebbe fatto il bis o sarebbe andato di nuovo alle camere, se glielo avesse chiesto il presidente della Repubblica. Anche senza il Movimento. Il tavolo di ieri con i sindacati è servito al premier a rispondere al documento in nove punti su Giuseppe Conte. Dal suo punto di vista, le aperture ci sono state: sul salario minimo, sul cuneo, sugli aiuti alle famiglie impoverite dal caro energia. Sono parte delle emergenze sociali elencate dal M5S. Ora però Draghi attende un segnale da Conte. Un impegno a sostenere il governo che potrebbe aiutare a gestire il contraccolpo politico che si attende domani in Senato, dove sembra ormai certo che i 5 Stelle si asterranno dalla fiducia uscendo dall’aula, in polemica contro la norma sull’inceneritore di Roma inserita nel decreto Aiuti. Mattarella è stato il regista già di due crisi in questa legislatura e vorrebbe costruire un percorso per evitare il baratro di lasciare il Paese senza un governo o farlo scivolare verso il voto, poco prima dell’avvio dei lavori sulla legge di bilancio. Draghi ha limitato il suo perimetro ed è disposto a continuare a vestire i panni del premier solo se la maggioranza non si avviterà in estenuanti sfide di nervi, distinguo, o ultimatum: «Il governo perderebbe il senso di esistere», ha dichiarato ieri. Draghi è stufo delle continue minacce e lo prova quando in conferenza stampa non trattiene l’irritazione quando, riferendosi a Matteo Salvini, parla «dei tanti altri che dicono che a settembre faranno sfracelli». Accanto a lui c’è il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, che ascolta in silenzio. È il primo ad aver capito che Draghi non guiderà un governo dove la golden share è in mano al centrodestra. È l’incubo di Enrico Letta.

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