Jonathan Safran Foer: “Siamo nell’Apocalisse, ma ci stiamo abituando”

Annalisa Cuzzocrea

«La crisi climatica è una crisi della capacità di credere», scriveva già tre anni fa Jonathan Safran Foer in Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi. Da tempo, il grande scrittore americano – l’autore di Ogni cosa è illuminata, Molto forte incredibilmente vicino, Eccomi, Se niente importa – riflette sul nostro rapporto con l’ambiente. Che è, al fondo, una storia che non siamo in grado di raccontare. Scriveva Amitav Ghosh ne La grande cecità: la crisi climatica è anche «una crisi della cultura, e pertanto dell’immaginazione».

La settimana scorsa in Italia un pezzo del ghiacciaio della Marmolada si è staccato uccidendo undici persone. Tutti sappiamo, tutti abbiamo scritto e raccontato, che è accaduto per via del riscaldamento climatico. In cima, sopra i 3000 metri, la temperatura arriva a 10 gradi. Non è normale, e i ghiacciai vengono giù. Eppure continuiamo le nostre vite come se nulla fosse. Com’è possibile che non crediamo a quel che tutti i giorni è ormai davanti ai nostri occhi?

«Il mondo intorno a noi sta cambiando, ma la più grande benedizione degli esseri umani – e la loro grande maledizione – è la capacità di adattarsi. Lo vediamo tutti i giorni. Io adesso sono a Parigi e penso alle cose alle quali ci siamo abituati con il Covid. Se solo pochi anni fa avessimo visto persone che camminano per strada indossando mascherine, postazioni mobili per effettuare test di positività, se avessimo dovuto mostrare il green pass per prendere un aereo, avremmo pensato di essere finiti dentro a un film post-apocalittico. Ma l’esperienza che abbiamo fatto di tutto questo ci porta oggi a non farci letteralmente più caso. Ed è avvenuto tutto molto velocemente. Ecco, anche rispetto al clima siamo dentro a un film post-apocalittico. Ne siamo i protagonisti, non gli spettatori. I disastri, le inondazioni, ci appaiono ormai completamente normali. Nella mia casa di Brooklyn, in cantina, ho creato una sorta di dispositivo anti-inondazioni che è una metafora perfetta perché per farlo ho dovuto costruire un muro che mi separa dal resto del mondo, in modo da preservare la mia qualità della vita».

È quello che stiamo facendo tutti?

«Su larga scala, è così. Cerchiamo modi per proteggere il nostro stile di vita, sebbene sappiamo che tutto questo non sarà sostenibile a lungo. Queste soluzioni non proteggeranno noi e soprattutto non proteggeranno i nostri figli e i nostri nipoti. E, allo stesso tempo, peggioriamo le cose, perché la maggior parte della popolazione del pianeta non è in grado di proteggersi. L’adattabilità degli esseri umani, la capacità di dire “ok risolvo così le inondazioni”, oppure “ok metto le mascherine, faccio un test ogni due giorni, accetto che per lunghi periodi i bambini non vadano a scuola in presenza”, crea una tranquillità apparente. Ma la verità è che siamo allarmati, ci sono livelli di ansia mai raggiunti, depressione. E tutto questo, invece di spingerci a fare qualcosa, è diventato carburante per la rassegnazione. Se fossimo capaci di indirizzarlo in maniera diversa, di andare verso un cambiamento, potremmo avere una chance. Ma non mi sembra stia accadendo».

Quanto c’entra, in questa inazione, la politica? Uno dei primi atti di Donald Trump fu quello di cancellare dal sito internet della Casa Bianca i documenti sui cambiamenti climatici. Nel suo libro, lei scrive che il 97% degli scienziati è d’accordo sull’esistenza e sulle conseguenze del riscaldamento globale, eppure è come se le persone non volessero crederci.

«Penso che le persone sappiano quello che sta accadendo, ma c’è una differenza tra sapere e credere. La maggioranza degli americani, inclusi i repubblicani, sa che il riscaldamento globale è causato dagli esseri umani e sa che ci avviamo verso l’autodistruzione, ma è molto diverso portare questa conoscenza fino al cuore. Se lo facessimo, saremmo motivati a fare tutto il necessario. Trump e tutto quel che rappresenta sono solo una distrazione. Ci sollevano dalle nostre responsabilità, possiamo dire “è tutta colpa dei repubblicani, dei negazionisti climatici”. Ma in America abbiamo un presidente democratico, un Senato democratico e un Congresso democratico. È difficile che una simile combinazione si ripeta per un bel po’. Eppure Biden è riuscito a realizzare solo il 9% delle promesse sul clima. E questo non è colpa di Trump».

E di chi?

«Al Congresso c’è una minoranza di blocco che non lo consente e l’aggressione russa all’Ucraina ha drammaticamente cambiato la politica energetica almeno nel breve termine, ma questo è il mondo in cui viviamo e la nostra è una corsa contro il tempo. L’attivista climatico Bill McKibben ha detto: “Vincere lentamente è come perdere”. E noi ora stiamo vincendo molto, molto lentamente. Nonostante sia aumentato il numero delle persone che crede in questa causa e nella scienza, e nonostante la politica finalmente si muova nella giusta direzione, siamo troppo lenti. Christiana Figueres ha detto di recente che il mondo ha cominciato un cammino suicida. Quindi non penso sia utile preoccuparsi delle poche persone che non vogliono affrontare la situazione, ma del perché la grande maggioranza di noi, mainstream, liberali, conservatori, non crediamo a quel che sappiamo. E non è perché siamo cattivi o ignoranti. Prenda me: le sto parlando da Parigi, dove sono arrivato in aereo con i miei figli. Viviamo vite piene di scelte ipocrite, ma anche le nostre scelte politiche individuali sono molto meno efficaci di quanto potrebbero essere. Io mi preoccupo del benessere dei miei figli, cerco un bravo insegnante se hanno problemi con la matematica e posso impiegare un giorno intero per trovare il miglior corso di recupero in caso abbiano avuto un brutto voto in pagella, ma in realtà sto facendo molto poco per il loro futuro. E non per mancanza di amore, ma per mancanza di immaginazione».

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