La guerra del grano nel Terzo mondo riapre la competizione fra due blocchi

Domenico Quirico

Un fantasma si aggira nel (terzo) mondo: è antico come è antico il grano, immobilizzato nei silos ucraini dove ogni giorno che passa rischia di marcire inutilmente; rinchiuso nelle stive di mercantili che non possono salpare perché i porti sono in guerra; biondeggia inutilmente nei campi del Donbass, quelli non devastati dalle bombe e dai cingoli dei carri armati, dove forse non c’è nessuno che possa mieterlo in pace come ogni anno. Oppure il grano in altri luoghi c’è, è pronto per essere venduto. Ma chi lo ha immagazzinato, lo commercia, ne fissa ogni anno i prezzi aspetta ben lontano dal fragore della guerra. Aspetta che la carestia ne faccia crescere ancor più il prezzo, fino a trasformarlo in oro. Gli speculatori non hanno bandiere.

È il fantasma della Grande Fame. In fila davanti ai forni i poveri del pianeta, dall’Africa alla Asia meridionale, osservano, finora con disperata rassegnazione, i prezzi che salgono ogni giorno come noi guardiamo quella dei carburanti alla pompa di benzina. Possiamo definirla la globalizzazione della fame.

È l’eterno flagello dei conflitti dai tempi in cui gli eserciti quando a primavera (marzo è sempre stato un mese crudele) invadevano il territorio del nemico subito tagliavano il grano ancora in erba o lasciavano che i cavalli pascolassero liberamente nei campi. La fame, ahimè, è sempre stata un’arma efficacissima. Dura nel tempo, appassisce le solidarietà, scatena rivolte.

Si dirà: se ne parla, si organizzano soccorsi, i capi di governo studiano rimedi, promettono «ristori» universali. Nella infinita galleria delle ipocrisie del Terzo millennio occidentale l’allarme per il Terzo Mondo affamato dovremo collocarlo ai primi posti. Certo, ci sono gli encomiabili della misericordia, i volontari e i professionisti della carità internazionale, eterne cassandre che levano la voce contro l’effetto collaterale della guerra europea ai danni degli umiliati e offesi degli altri continenti. Ma siamo sinceri: l’improvvisa attenzione delle cancellerie per il Terzo Mondo puzza di zolfo e di bugia, il timore che le muove, lasciato cadere con noncuranza, è che le inevitabili rivolte della fame determinino un nuovo 2011 con fughe in massa dai Paesi travolti dalla carestia verso le coste europee. Dopo dieci anni fruttuosamente impiegati per nascondere i migranti sotto il tappeto dei «campi di accoglienza» africani ecco che si ripresenta la peste dei barconi stracarichi, delle invasioni, delle rotte della disperazione da bloccare e presidiare.

Ma nel Sud del mondo, che in larghissima parte si è rifiutato di allinearsi con gli Stati Uniti, l’Europa e i loro più stretti alleati nella condanna e nelle sanzioni alla Russia, la guerra e la possibile catastrofe incombente vengono letti in modo diverso. La contrapposizione tra democrazie e tirannidi, che costituisce il pensiero unico occidentale per spiegare la guerra ucraina, non seduce e convince presidenti-padroni, raiss e Colonnelli supremi di regimi, quasi tutti autoritari, di questa parte del pianeta. I più audaci la interpretano come un esempio di prepotenza ai danni di un Paese confinante per arraffare territori e cambiare con la forza le frontiere: un tema che costituisce una regola intoccabile in una parte del mondo dove i confini non sono certo storici o naturali, ma tracciati con la matita e il compasso dai vecchi colonialisti (europei). Accettare il principio della loro modificabilità significherebbe l’apocalisse.

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