Gli errori di Mosca: l’armata in battaglia senza testa né occhi

di Gianluca Di Feo

Il generale italiano Giulio Douhet nel 1921 ha rivoluzionato l’idea di guerra, inventando i “bombardamenti strategici”, ma la Regia Aeronautica non ha mai avuto mezzi e strutture per concretizzare le sue idee: le applicarono poi le “fortezze volanti” americane sulle nostre città. Il comandante russo Valery Gerasimov invece passerà alla storia come il generale che ha concepito la guerra ibrida del futuro ma ha condotto la sua armata a una disfatta con metodi del passato. Il raid degli elicotteri a Belgorod non è che l’ultima di una lunga serie di deficienze della macchina bellica di Mosca, così profonde da apparire incredibili: peccati capitali nell’organizzazione, nelle tattiche e negli strumenti.

In cinque settimane i russi hanno cambiato tre diversi piani di battaglia, senza incassare una vittoria. Il primo, quello dell’invasione, resta un enigma. Gli assalti dei paracadutisti su due aeroporti di Kiev si sono trasformati in un massacro, mentre le colonne di tank lanciate verso Sumy, Karkhiv e Chernihiv erano troppo deboli per espugnare le città: meno della metà dei reparti disponibili è entrata in azione. Gli unici risultati ci sono stati a sud, dove l’intera regione tra Donbass e Crimea è stata occupata con l’eccezione di Mariupol. Perché? Probabilmente l’offensiva sulle città non aveva obiettivi militari ma politici: doveva servire per un cambio di regime, un golpe o qualcosa del genere, che riportasse al governo gli amici di Mosca. Putin è sempre stato un giocatore di scacchi, invece si è seduto a una partita di poker puntando su una scala a incastro: fallito il blitz della prima notte nella capitale, ha perso molte delle sue fiches. Forse voleva ripetere lo schema di Praga e Kabul: parà, presa del palazzo del potere e insediamento del governo collaborazionista. La quinta colonna promessa dai suoi servizi segreti però non s’è vista mentre gli ucraini hanno reagito in maniera straordinaria.

A quel punto i generali hanno buttato contro Kiev e le altre città il resto delle forze: 100mila soldati e seimila blindati si sono mossi però come un esercito del secolo scorso, finendo in trappola. La débacle più grave è sintetizzata in una sigla: C3 ossia Comando, Controllo e Comunicazione, l’ossatura di ogni conflitto. Il comando non controllava i reparti, che non riuscivano a comunicare, né tra loro, né con i vertici. Una bolgia infernale, in cui i singoli battaglioni avanzavano alla cieca fino all’esaurimento del carburante; i convogli dei rifornimenti si perdevano tra le imboscate; aerei e cannoni agivano per fatti loro senza coordinamento. Tanto più che la direzione delle operazioni – come ha scritto il New York Times – è rimasta nei bunker di Mosca, lontanissimo dall’Ucraina, e i generali per capire cosa stesse accadendo ai loro uomini sono corsi in prima linea, finendo spesso nel mirino dei cecchini.

Gli eserciti della Nato hanno l’ossessione del C3, che viene affidato ad apparati satellitari, per “combattere in rete” condividendo tutte le informazioni in tempo reale persino sui tablet delle pattuglie. I russi invece sono all’anno zero: gli uomini a terra non hanno modo di contattare gli aerei e guidarne gli interventi ma faticano pure a dialogare con l’artiglieria. L’aviazione non ha preso il dominio del cielo, nonostante sia venti volte superiore a quella di Kiev. La scarsità di armi di precisione, poi, le impedisce di dare sostegno ai reparti in crisi. Ma non riesce neppure a scoprire i velivoli avversari, perché ha pochi radar volanti, tanto che gli elicotteri sono arrivati indisturbati fino a Belgorod. Tutta l’attività di ricognizione è carente: non scoprono dov’è il nemico, non hanno droni che accompagnano i reparti. Insomma, un corpaccione con grandi muscoli ma senza una testa, che mena mazzate a casaccio.

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