Ora rischiamo i fondi del Pnrr

MARCELLO SORGI

Mai visto Draghi così infuriato. E soprattutto, per la prima volta, pronto a dimettersi, se il governo non sarà rimesso in condizione di lavorare seriamente. È andato a parlarne con Mattarella, con il quale aveva appuntamento per confrontarsi sulla crisi ucraina e sulla sua prossima missione a Mosca. Poi ha riunito i capigruppo della maggioranza e li ha strigliati per le quattro votazioni in cui, nella notte tra mercoledì e giovedì, il governo è andato sotto alla Camera. La più indicativa riguardava il tetto per l’uso dei contanti, riportato a duemila euro grazie al voto unitario del centrodestra. Rivendicato dai tre leader, Salvini, Meloni e Tajani, come un successo della rinata coalizione, fin qui divisa tra governo e opposizione. E duramente contestato da Conte, che da presidente del consiglio aveva introdotto il limite abolito con il voto.

Ma nella notte in cui c’è stato un generale rompete le righe della maggioranza di unità nazionale, quello di centrodestra non è stato l’unico schieramento a ricomporsi per mandare sotto il governo. Altrettanto hanno fatto i giallorossi con l’aiuto intermittente di Italia viva, mentre le votazioni andavano avanti senza che nessuno cercasse di riorganizzare la larga maggioranza che dovrebbe sorreggere l’esecutivo. Quando Draghi ieri pomeriggio si è riunito con i capigruppo, quindi, aveva più di una ragione per lamentarsi. Il messaggio del premier è stato chiaro: così non si va avanti. Vuol dire che non è disposto ad accettare nuovi episodi di questo genere, che se dovessero riproporsi lo porterebbero alle dimissioni. Una crisi, a un anno dall’insediamento del governo d’emergenza, sarebbe l’anticamera di elezioni anticipate. Tra una cosa e un’altra un blocco di minimo tre – quattro mesi, che l’Italia non può permettersi. Oltre a provocare la rivolta dei parlamentari, che senza arrivare all’autunno perderebbero la pensione.

Al di là degli incidenti notturni alla Camera, però, ci sono altri indizi del malessere che sta paralizzando il governo. La riforma della giustizia, approvata in consiglio dei ministri all’unanimità, è stata polverizzata appena arrivata in Parlamento. Quella della concorrenza, ribattezzata dei balneari perché inciderebbe, tra l’altro, sulle concessioni dei titolari degli stabilimenti, è pronta per subire lo stesso destino. E identica prospettiva riguarda la riforma fiscale. Stiamo parlando di tre delle riforme più attese dalla Commissione europea come prova della capacità del Paese di adeguarsi al cambiamento considerato presupposto del Pnrr, il piano di aiuti per la ricostruzione post-Covid di cui l’Italia ha già ricevuto una prima rata da 25 miliardi e sta aspettando la seconda, niente affatto scontata.

Insomma, se serviva una conferma all’impossibilità di conciliare le esigenze della campagna elettorale permanente dei partiti e il lavoro da fare per il governo, è arrivata prima del tempo. Ma difficilmente il richiamo all’ordine di Draghi, anche se ha ventilato la possibilità di dimettersi, verrà accolto. Per capirlo, era sufficiente osservare l’atteggiamento dei capigruppo, che hanno ascoltato in silenzio il rabbuffo del presidente del consiglio e un minuto dopo sono andati alla Camera a mormorare ai loro parlamentari che è lui che deve cambiare atteggiamento, altrimenti loro non sono in grado di garantire un bel niente.

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