Il prezzo della guerra: Italia, il conto più alto

Alessandro De Angelis

Non è un mistero che dentro la maggioranza di governo convivano posizioni diverse sui rapporti con la Russia, e dunque sulla crisi ucraina, destinate ad acuirsi in caso di escalation con chi, già oggi, chiede rapporti bilaterali con Putin fuori dal quadro di azione europea. Così come l’aggravarsi della crisi energetica conseguente è destinata ad acuire le differenze, invece, con i Cinque stelle in merito all’aumento delle estrazioni di gas sul territorio nazionale.

In attesa di capire se siamo di fronte a una sorta di nuova crisi di Cuba, destinata a rientrare grazie anche all’effetto calmierante delle Olimpiadi cinesi, l’Ucraina disvela un’assenza di protagonismo italiano, che va oltre la prudenza. E lo stesso vale per la Libia, che sta precipitando verso lo scenario di una sua “spartizione” in zone di influenza: una filo-turca, con il governo a Tripoli, l’altra filo russo-egiziana, con il governo a Bengasi. Una catastrofe strategica nel Mediterraneo, per l’Europa e per l’Italia, dalle conseguenze imponenti per i flussi migratori (e infatti gli sbarchi a Lampedusa sono ripresi nonostante la stagione), la questione energetica, la sicurezza sanitaria.

La riscoperta dell’interconnessione del mondo non più solo virale – anche la questione energetica è innanzitutto geopolitica – coincide con la scoperta di una disconnessione italica, che fatica a vivere la dimensione internazionale oltre lo spread e il Pnrr. Non sarà impresa facile per Draghi, che ha un’emergenza oggettiva da affrontare, il collasso partitico su cui navigare e, parafrasando Woody Allen, nemmeno lui si sente tanto bene, nel senso che, dopo il travaglio quirinalizio, per uscire più forte deve dimostrare di avere, più che il fastidioso rigetto del tecnico verso un mondo che a sua volta ne ha rigettato l’ascesa, capacità di guida politica superiore alla politica in crisi. Venuti meno il Great Game quirinalizio e l’angoscia da Covid, vero collante collettivo degli ultimi anni, si gioca su questo la terza fase del premier, dopo quella dell’uomo della provvidenza, chiamato a salvare il paese sul default della politica e quella del Colle, segnata dal dominio della mediazione, ai tempi dell’auto-candidatura che ha rivitalizzato il potere negoziale dei partiti.

E se il tentativo di rilancio è legato al recupero della prima, la riuscita è legata a come si approccerà al nuovo contesto, radicalmente mutato nei suoi assi portanti. Oggettivi: e cioè il quadro internazionale, più impegnativo rispetto alle previsioni in termini geopolitici ed economici, e quello nazionale, segnato da un nuovo capitolo dello sfarinamento dei partiti. E soggettivi: come cioè si porrà verso la politica, perché un conto è rimanere fuori dal gorgo degli schieramenti che verranno, altro è la funzione di indirizzo e il rapporto col paese, adesso che col Colle si è chiusa la fase del “tecnico prestato”.

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