La filosofia di Cacciari e Agamben è diventata uno spettacolo. Brutto

E fa lo stesso a proposito del linguaggio, della mente, e di ogni altro oggetto che si trovi su piazza. Che se mai ha un rapporto privilegiato con l’arte o con la teologia, ma non perché debba soddisfare chissà quali bisogni spirituali, né, peggio, perché cerchi semplicemente di sfuggire alle grinfie severe della scienza, ma perché le capita di trovare in quei mondi risorse e attitudini critiche analoghe (a volte a ragione, a volte no). Una filosofia, infine, che ha volentieri calcato il terreno della politica e dell’uso pubblico della ragione, perché (provo a dirla così) non gli vien facile mettere tra parentesi il mondo della vita (così lo chiamava Husserl) da cui provengono tutti i discorsi degli uomini.

E qui, però, casca l’asino. O il filosofo. Che porta volentieri la stessa radicalità con cui affina le sue categorie prime e ultime a ridosso non solo della politica (e passi), ma proprio della cronaca (ed è più difficile farlo passare). Non è un tratto specificamente moderno, ma di sicuro con la spinta rivoluzionaria della modernità si è accentuato. E non è un tratto specificamente italiano, anche se in Italia la filosofia ha tradizionalmente vocazione civile, che ne costituisce quasi un tratto identitario: i suoi migliori filosofi – da Machiavelli a Vico a Gentile – ne sono esempio. Dopodiché, cosa è accaduto? Dirò un po’ all’ingrosso: che a questa filosofia, un po’ per ragioni storiche, un po’ per difetto congenito, sono venuti in voga i discorsi della fine – fine della storia, fine di Dio, fine della lotta di classe, fine della democrazia, fine dell’Occidente, fine di tutte le cose – come se non pensasse veramente, con la necessaria radicalità, chi non avesse almeno una fine da denunciare. Se uno infatti legge Agamben, nota subito questo tono: c’è sempre un «inaudito» che si annuncia: vuoi in un inavvertito passaggio epocale, vuoi in una inedita postura etica, vuoi infine in una nuova, immancabilmente agghiacciante decisione politica. Ed è questo nesso troppo stretto fra ontologia e politica, e il lutto mal elaborato per una rivoluzione mai avvenuta, che fa precipitare irreparabilmente le cose.

Può darsi allora che, proprio come Kant (da cui prende avvio il saggio di Derrida) si doleva del fatto che inseguendo simili apocalittici toni la filosofia rinunciasse ad essere «saggezza di vita perseguita con metodo», così certi filosofi, disdegnando le mezze misure, stimino di troppo piccolo formato le vie mediane del diritto e le inevitabili imperfezioni delle istituzioni democratiche disponibili. Completamente svuotate, dice in effetti uno sconsolato Cacciari, e uno gli vorrebbe chiedere come pensa allora di riempirle (essendo esclusi i convegni), o anche se non ci sia qualcosa da temere da forme politiche troppo piene. Ma tutto questo riguarda il tono e la postura, lo spettacolo e la convegnistica. Non la filosofia teoretica, non l’intera filosofia italiana, e nemmeno, per fortuna la filosofia di Giorgio Agamben e di Massimo Cacciari. Che sono e restano tra i maggiori pensatori contemporanei.

L’HUFFPOST

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