Riccardo Muti: «Mi sono stancato della vita. I direttori gesticolano e studiano poco»
Come sarebbe stata?
«Senza
elefanti. Giorgio credeva in un’Aida dove il trionfo fosse solo nella
musica, non in quel faraonismo che ha caratterizzato le produzioni di Aida dovunque nel mondo, fino a diventare il simbolo stesso di Aida,
nuocendo alla vera essenza dell’opera. Che è costruita su una delle
partiture più raffinate e delicate di Verdi. E questo non vale solo per Aida».
Cosa intende dire?
«Non
vorrei essere l’uccello del malaugurio; ma il costo esorbitante di
scenografie e costumi, accanto alla scarsa competenza e autorevolezza
dei direttori d’orchestra che — con le dovute eccezioni — lasciano i
cantanti senza guida, mi preoccupano sul futuro dell’opera. L’Italia è
piena di teatri del ’700 e dell’800 ancora chiusi. L’ho detto a
Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre: ci
sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che
languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro
economico delle famiglie. Dobbiamo fare molte cose, se vogliamo che il
nostro patrimonio operistico, il più eseguito al mondo, non sia
considerato occasione di piacevole intrattenimento ma fonte di
educazione e cultura, come le opere di Mozart, Wagner, Strauss. Verdi
non è zum-pa-pa!».
Com’erano davvero i suoi rapporti con Abbado?
«Tra
noi c’è stata sempre ammirazione reciproca. Hanno voluto montare una
rivalità tipo Callas-Tebaldi o Coppi-Bartali: tutto falso. Quando sono
andato al conservatorio di Milano, Abbado era già in carriera: abbiamo
avuto rare occasioni di incontrarci, ma sempre cordiali».
E con Pavarotti?
«Ho cominciato a lavorare con lui nel 1969, con i Puritani alla Rai di Roma. Poi abbiamo avuto momenti di frizione…».
Per quale motivo?
«Fatti
tecnici. Incomprensioni musicali. Tramutate in una grande amicizia.
Devo a Pavarotti una delle più belle, se non la più bella voce della
seconda metà del Novecento. Lui mi ha regalato cose meravigliose: un Pagliacci registrato in disco a Filadelfia, un Requiem di Verdi alla Scala, e soprattutto il Don Carlo scaligero,
dove Pavarotti in particolare nel finale dà una lezione di tecnica
vocale, di fraseggio perfetto, davvero di grande ispirazione. Sulle
parole “ma lassù ci vedremo in un mondo migliore” riconosco la sua
generosità. Diversi anni prima che morisse, mia moglie e io lo invitammo
a Forlì a un concerto di beneficienza per una comunità di
tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’America. Non volle una
lira, si pagò lui il biglietto aereo. Lo accompagnai per tutta la serata
al pianoforte, di fronte a settemila persone. Un gesto che non potrò
mai dimenticare».
Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?
«La salma nel Duomo di Modena, la piazza che risuona del famoso “Vincerò…”. Io avrei preferito che fosse messo il finale del Don Carlo.
Non solo per il significato delle parole, ma anche per la lezione di
canto, per la sottolineatura di un aspetto della vocalità di Pavarotti
non trionfalistica ma intima e delicata».
Lei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore?
«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero ci sia tanta luce; mi
basta che non ci sia la metempsicosi. Non ho voglia di rinascere, tanto
meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è più che sufficiente».
Crede in Dio?
«Ho
avuto una formazione cattolica. Ho ammirato molto papa Ratzinger, anche
come magnifico musicista. Non credo nei santini di Gesù biondo. Dentro
di noi c’è un’energia cosmica che ci sopravvive, perché è divina.
Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione che il suo
corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso,
l’energia vitale. Sento che l’universo è attraversato da raggi sonori
che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I
raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti».
Chi ha dato la migliore definizione della musica?
«Dante. Paradiso, canto XIV: “E
come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a
tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/
s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender
l’inno”. La musica è rapimento, non comprensione. Critici
musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere. Come diceva
Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le
note».
Come ha passato il lockdown?
«A studiare. La Missa Solemnis
di Beethoven. La mia prima partitura è del 1970. Ci lavoro da più di
mezzo secolo, ma non ho mai osato dirigerla. Lo farò ad agosto a
Salisburgo. È la Cappella Sistina della musica: la sola idea di
accostarla mi ha sempre dato grande timore. Ci sono dettagli di
importanza enorme. Al Miserere nobis
Beethoven premette un “O”, che presuppone un interlocutore. Beethoven
ha sentito che l’invocazione era rivolta a Qualcuno. Pare un dettaglio,
ma apre un mondo. Significa che un Essere superiore esiste».
Quindi non è stato un brutto lockdown.
«A
parte lo studio, è stato orribile. La disumanizzazione si è fatta
ancora più profonda. La mancanza di rapporti umani è terrificante. Entri
al ristorante e vedi al tavolo cinque persone tutte chine sul loro
smartphone… Io non lo posseggo e non lo voglio. Me ne hanno dovuto
dare uno, per entrare in Giappone, ma non sono riuscito ad accenderlo.
La tv avrebbe dovuto approfittare del lockdown per fare trasmissioni
educative. Invece, a parte qualche bel documentario, siamo stati invasi
da virologi, da sedicenti “scienziati”. Per me scienziato era Guglielmo
Marconi!».
Non ama i talk-show?
«Riesco
a seguire un contrappunto in otto parti musicali che si intersecano una
con l’altra, ma non riesco a capire due persone che si parlano una
sull’altra. Creano disarmonia, cacofonia; mentre otto linee musicali una
diversa dall’altra devono concorrere al raggiungimento dell’armonia. La
banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la
mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei
giovani».
Lei è di destra o di sinistra?
«Né
l’uno né l’altro. Sono tra quelli che tentano di dare indicazioni
utili. A Firenze negli anni 70 ero amico di molti comunisti, tra cui
Paolo Barile, il costituzionalista; ma siccome usavo spesso parole come
“patria” e mi piaceva eseguire l’inno di Mameli, qualcuno sentì odore di
idee di destra. Io sono nato uomo libero e tale rimango. Sono cresciuto
con dettami salveminiani, socialista non bolscevico. Non mi sono mai
affiliato a una congrega».
C’è un eccesso di politicamente corretto anche nella musica?
«Con
il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero in galera. Definiscono Bach,
Beethoven, Schubert “musica colonialista”: come si fa? Schubert poi era
una persona dolcissima… C’è un movimento secondo cui, nel preparare
una stagione musicale, dovrebbe esserci un equilibrio tra uomini, donne,
colori di pelle diversi, transgender, in modo che tutte le questioni
sociali, etniche, genetiche siano rappresentate. Lo trovo molto strano.
La scelta va fatta in base al valore e al talento. Senza
discriminazioni, in un senso o nell’altro. Posso parlare perché la
maggior parte dei “Composers-in-Residence” che abbiamo ospitato in
questi dieci anni a Chicago sono donne».
È vero che da bambino pensavano che lei non avesse talento?
«Papà
mi regalò a Natale un violino. Piansi; volevo un fucile con il tappo.
Dopo due mesi di vani tentativi di leggere i solfeggi, papà disse: “Il
piccolo Riccardo non è portato per la musica”. Mamma concluse: “Proviamo
ancora un mese”. D’un tratto imparai a solfeggiare. Ma l’incontro
decisivo fu con Nino Rota».
Il compositore dei film di Fellini.
«Diedi
con lui a Bari l’esame del quinto corso di pianoforte da privatista: mi
diede 10 e lode in tutte le prove. Così decisi di iscrivermi al
conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio prendevo la
corriera per Bari».
Per essere stanco della vita, lei è sempre in giro.
«Credo
nei viaggi dell’amicizia e della pace. Non lavori per il successo, la
quantità di applausi e articoli; lo fai perché capisci che la nostra
professione è una missione. Ho diretto il primo concerto a Sarajevo dopo
i bombardamenti, il Va’ pensiero a New York nel buco lasciato dalle
Torri Gemelle abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la
sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un coro di bambini meraviglioso:
avevano studiato il Va’ pensiero
con una pronuncia assolutamente perfetta, mi commuovo ancora se ci
penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che parla ai
sordi… Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E
dire che le radici della musica mondiale sono in Italia: Palestrina,
Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti…».
Ha paura della morte?
«No.
Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a vedere i fuochi fatui. Ho
conosciuto l’ultima prefica, Giustina: raccontava i pregi del morto,
disteso sul letto nell’unica stanza della casa, la porta aperta sulla
strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio ardito…
Un mondo semplice e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le
dico che appartengo a un’altra epoca. Oggi il mondo va così veloce,
travolge tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda
umanità…».
Quindi non teme la fine?
«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti. Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli animali».
Quali animali?
«Il
cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline,
galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si
affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi rosa… E noi
diamo del cane e dell’asino come se fossero insulti».
Come vorrebbe i suoi funerali?
«Scherzosamente
dico che lascerò l’indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa
attraverso incisioni, rigorosamente dirette da me».
Perché?
«Non
perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo
Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c’è la
probabilità che si apra la bara… (Muti sorride). C’è una cosa però su cui sono serissimo».
Quale?
«Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l’anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi».
CORRIERE.IT
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