Acciaio fragile

Prezzi alle stelle e interruzioni lungo le catene di approvvigionamento si stanno lentamente ripercuotendo sui beni di consumo più ordinari. L’allarme che da giorni sta lanciando il direttore generale dell’associazione industriale delle conserve alimentari (Anicav) Giovanni De Angelis sulla carenza di barattoli per pelati e polpa di pomodoro rischia di essere solo un primo effetto della corsa verso l’alto dei costi di alcune commodities come il rame, il legno, il greggio. O, come in questo caso, l’acciaio: per l’Italia il rischio è duplice dal momento che la più grande acciaieria d’Europa, l’Ilva di Taranto, è appesa a una sentenza del Consiglio di Stato – prevista entro giugno – che può decretarne lo spegnimento, mandando all’aria i progetti del Governo Draghi di risollevarne le sorti anche attraverso il Recovery Fund e portare gradualmente il siderurgico del Sud Italia verso una produzione sostenibile e pulita. Già ora l’area a caldo è stata sottoposta a confisca dalla Corte d’Assise nella sentenza di condanna di pochi giorni fa per disastro ambientale a carico della gestione Riva, confisca che seppur non esecutiva crea ulteriore incertezza sul futuro dell’acciaieria. Ma nel tribolato mercato dell’acciaio a tenere in apprensione il mondo operaio non c’è solo la nebbiosa incertezza che avvolge Taranto, anche Piombino dove ha sede la Liberty Magona non se la passa bene e i sindacati parlano apertamente di rischio stop produttivo se non verrà trovato presto un rimedio. L’acciaio italiano, in altre parole, sta vivendo un momento di gravi difficoltà e i timori che possano trasferirsi a breve anche ad altre filiere industriali si fanno sempre più diffusi. Cosa sta succedendo?

La ripresa post Covid spinta dalla Cina e dagli Stati Uniti con i maxi piani economici varati da Trump e poi da Biden si è tradotta in un forte aumento di domanda di beni e materie prime che ne hanno fatto lievitare costantemente il prezzo. Il rame si è apprezzato del 47% rispetto ai livelli pre-crisi, il grano del 12%, la soia del 15%, il legno per pallet del 20%, il nichel e lo zinco del 51%. Stesso discorso vale per l’acciaio: il prezzo dei coils laminati a caldo, una sorta di benchmark per i semilavorati della lega di ferro e carbonio, è salito sul mercato europeo oltre i 1200 euro per tonnellata. Per farsi un’idea dell’incremento basti pensare che a giugno 2020 il prezzo dello stesso bene era di soli quattrocento euro per tonnellata. Il caro prezzi si è quindi trasferito anche ai laminati a freddo, che vengono utilizzati ad esempio nell’industria degli elettrodomestici, e in quelli zincati, richiesti soprattutto dalle case automobilistiche per le carrozzerie. Anche il prezzo dei tondi per il cemento armato ha visto una crescita di oltre il 150%. In altre parole, i costi elevati delle materie prime rischiano di far lievitare quelli alla produzione, mettendo in difficoltà aziende e settori tra i più disparati. 

L’anno scorso, secondo i numeri di Federacciai, l’Italia ha prodotto 20 milioni di tonnellate di acciaio. Di queste fanno capo all’Ilva una parte residuale, circa tre milioni, il 15%. Un crollo vertiginoso visto che solo otto anni fa dagli altiforni dell’acciaieria pugliese venivano sfornate circa nove milioni di tonnellate all’anno. Il risultato? L’Italia, seconda manifattura in Europa e con un giro d’affari strettamente connesso alla siderurgia per oltre sessanta miliardi di euro già l’anno scorso ha pagato un deficit di un milione di tonnellate. In altre parole ha importato più acciaio di quanto ne abbia esportato, un trend che rischia ora di accentuarsi se le crisi industriali di Taranto e Piombino non si risolveranno alla svelta.

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