Enrico Letta e quel che resta di “VeDrò”

Montesquieu

Enrico Letta è oggi il segretario del Partito democratico e un ex presidente del Consiglio. Un curriculum oggettivamente brillante, data la ancor giovane età: ministro tra i più giovani della Repubblica, allievo prediletto di uno dei più originali uomini di governo e di cultura economica degli ultimi decenni del secolo scorso, Beniamino Andreatta . Non ha il rilievo che merita, nella memoria comune, l’accostamento di Letta con una sigla – VeDrò -, che ha attraversato più o meno l’intero periodo berlusconiano: un’iniziativa generazionale e trasversale da lui creata, che si teneva ogni estate a Dro, paese della sponda trentina del lago di Garda. L’eccezionalità stava nel carattere trasversale, provocatoriamente trasversale: concetto inaccettabile, bandito alla stregua di un’eresia durante la purtroppo breve parentesi di bipolarismo istituzionale del nostro Paese. Bipolarismo competitivo ma solidale nelle intenzioni del suo vero propulsore, Mario Segni; bipolarismo ringhioso e sostanzialmente padronale nella versione applicata dal suo principale gestore, nonché inventore della coalizione di centro destra, Silvio Berlusconi.

Con un capolavoro di cinismo politico fu riesumata e incattivita la naturale incompatibilità tra democrazia e comunismo; impregnando di anticomunismo viscerale gli stessi elettori che fino ad allora erano indotti a sfogare il tasso di avversione nelle cabine elettorali, e per il resto ad apprezzare la concordia nazionale nella difesa della Costituzione e dell’unità degli italiani. Tutto questo avveniva senza che qualcuno si accorgesse che il comunismo mondiale si era dissolto d’un colpo, da alcuni anni. E che quello nazionale, spurgato da incoscienti relazioni internazionali, tornava a essere un partito di governo.

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