Tommaso Longobardi, il guru social di Meloni: «Ho iniziato con Casaleggio. La mia strategia? Coerenza e lato umano di Giorgia»




A proposito di notizie: i profili dei politici pubblicano spesso grafiche rielaborate con il logo delle testate giornalistiche. Perché?
«Non posso usare la pagina di Giorgia come fosse una testata giornalistica o rilanciare notizie non verificate. Così facendo non è Giorgia che dà la notizia, ma la testata. Potrei pubblicare il link, ma la card viene premiata dagli algoritmi ed è più funzionale alle condivisioni».

Il tormentone Io sono Giorgia, che poi è diventato anche il titolo del libro, vi ha aiutato?
«È nato nel 2019 come sfottò su Instagram e TikTok, ma è talmente orecchiabile che si è trasformato in un messaggio positivo per noi. Ha coinvolto persone che normalmente non seguono la politica: la cantavano persino i bambini, tutta propaganda gratuita regalata da chi voleva attaccarla. E la crescita della sua popolarità e di quella del partito è stata evidente: non voglio dire che sia dovuta solo al tormentone, ma di sicuro c’è stato un contributo rilevante. Tutti parlavano di Giorgia, in quel momento, è diventata un personaggio».

Se Meloni dovesse diventare premier?
«Quando si diventa dei rappresentanti delle istituzioni il registro mediatico e comunicativo deve diventare più inclusivo. Inizi a parlare a tutti, devi cambiare il tuo registro. Certo, c’è stato chi lo ha fatto, in passato…».

Come giudica l’esclusione di Trump dai social network?
«I social non dovrebbero comportarsi da editori, se lo fanno devono subire la parte legislativa. Le loro regole sono molto generiche: non esiste un vero vademecum per capire cosa si può e cosa non si può pubblicare. È tutto a loro discrezione e se decidono di impedire a un politico di esprimersi in campagna elettorale — e non parlo di esternazioni che vanno contro la legge — diventa pericoloso per la democrazia. In questo momento tutto fa pensare che saranno sempre più intrusivi. Faccio un esempio: un deputato di FdI è stato bloccato da Facebook per un post su Trump che non aveva violato gli standard, ma conteneva solo una notizia che era stata bollata come impreciso dai fact checker. Si trattava di un errore di Facebook, poi riconosciuto come tale, ma in campagna elettorale queste cose non possono succedere».

Sarà quindi d’accordo con la riammissione di Casapound su Facebook.
«Ancora una volta: se la scelta del social network è discrezionale e non si basa su una violazione precisa non va bene, è pericoloso. Infatti CasaPound ha vinto la causa. È un problema che va affrontato con attenzione, senza soffermarsi sul partito politico. Io, per esempio, mi sono schierato con le Sardine quando sono state buttate giù da Facebook, anche in quel caso in modo discrezionale».

CORRIERE.IT

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