Ddl Zan. Perché riscrivere il testo è la via per una legge seria

Eugenio Mazzarella

Come era da attendersi, una buona intenzione – contrastare e punire condotte abbiette su gruppi sociali più esposti di altri alla discriminazione e alla violenza, nel caso di specie per motivi attinenti ai vissuti personali della sfera sessuale e della disabilità – si è arenata ancora una volta sul terreno dello scontro politico e ideologico. Nessuno (o quasi) contesta la ragionevolezza di ciò che il ddl Zan vuole evitare (discriminazioni e atti di violenza) e promuovere (una cultura dell’accoglienza dell’’altro’). E quindi nessuno che condivida queste intenzioni può sensatamente opporsi alle sue finalità. Il punto verte sui mezzi per raggiungere i fini che ci si propone. Qui cominciano i problemi.

Le obiezioni sono così tipizzabili: è una legge pleonastica; è una legge che mette a rischio la libera espressione delle idee nel dibattito pubblico; le fattispecie penali individuate non hanno la necessaria tassatività per evitare l’alea di interpretazioni lesive in dibattimento di tutti gli attori coinvolti, creando, per dirlo con un’analogia, problemi simili al contestatissimo reato di abuso d’ufficio. Ora così come sono certe le buone ragioni di fondo della legge Zan, diversi aspetti di queste obiezioni sono sensati. Quindi che fare? Sulla prima obiezione, la tesi cioè che già con le attuali norme del Codice penale si possano raggiungere le finalità del ddl, direi, che anche se ha una sua plausibilità, tuttavia è prevalente l’urgenza sociale di normare comportamenti odiosi a danno di gruppi sociali esposti che destano sempre più un giustificato allarme sociale. Le altre due obiezioni hanno maggiore solidità, e i loro argomenti sono sostenuti dall’ingresso nell’impianto della legge fondamentalmente di un concetto, l’«identità di genere», di difficile definizione e pertanto difficilmente maneggiabile in diritto penale. Soprattutto se, come nel ddl Zan, nelle definizioni previe all’articolato di legge, lo si importa come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Dove è del tutto ovvio che siamo in presenza di una definizione soggettiva, ‘fluida’ di questa identità. La riduzione, cioè, dell’identità di genere a processo autodichiarativo del proprio ‘sentire’ che sarebbe proprio di ogni genere, anche quello binario prevalente, maschile e femminile, e quindi non ne individua nessuno. D’altro canto, è tesi lgbt che, anche nel rapporto con l’anatomia sessuale, il genere sia uno ‘spettro’, che cioè non esistono solo un genere femminile e un genere maschile, ma uno spettro continuo di generi tra questi due ‘estremi’. Ma una tesi del genere, tutt’altro che unanimemente condivisa nel dibattito scientifico e di pensiero, come può essere ‘giuridificata’ in diritto penale?

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