Salvini, Letta e il ritorno di Ursula

di Paolo Mieli

Ursula von der Leyen è di nuovo tra noi. Non per la telefonata con Mario Draghi che ha sbloccato il Recovery plan, ma perché il suo nome evoca un patto politico tra Pd, M5S e FI, cioè i tre partiti che nel luglio del 2019 la votarono per la presidenza della Commissione europea. Patto a cui, ad ogni evidenza, pensano Enrico Letta e Dario Franceschini, costretti a irrobustire l’accordo infragilito con i Cinque Stelle andando a cercare un’intesa con ciò che resta del partito di Silvio Berlusconi. Intesa che avrebbe ai loro occhi il pregio di allargare la piattaforma di partenza per l’elezione del Capo dello Stato. E offrirebbe alla sinistra nuovi orizzonti in vista del voto politico, per il fatto che i suffragi berlusconiani, se cambiassero campo, varrebbero doppio: si aggiungerebbero a quelli dell’alleanza del Pd-M5S e verrebbero sottratti al fronte del centrodestra.

A portare alla luce questo genere di prospettiva è stato (involontariamente, si presume) Matteo Salvini con l’astensione per il mancato spostamento alle 23 dell’orario di chiusura di bar e ristoranti. L’astensione è un’arma assai insidiosa: se la si usa una volta, poi si sarà costretti a usarla in molte altre occasioni. Oppure si dovranno dare spiegazioni su perché non ci si è astenuti tutte le volte successive in cui si sarebbe dovuto manifestare disagio per altre scelte del governo. Magari più rilevanti di quanto non lo sia stata quella del coprifuoco.

Il più veloce ad accorgersi delle implicazioni di questo passo azzardato di Salvini è stato Romano Prodi. In un’intervista — su questo giornale — a Massimo Franco, Prodi ha paragonato il leader leghista a Fausto Bertinotti che nel 1998 provocò la caduta del primo governo dell’Ulivo. Secondo Prodi, sarebbero entrambi — Salvini e Bertinotti — vittima di una sindrome che colpisce chi partecipa a governi di coalizione: «Fai una scelta drastica, poi cominci a perdere consensi e la cosa ti fa diventare matto… allora alzi la posta». Va precisato però che, nella ricostruzione prodiana, c’è qualche particolare che non torna. Nel 1996 Bertinotti, leader di Rifondazione comunista, non aveva fatto accordi di coalizione con l’Ulivo, bensì solo un patto di desistenza; dopodiché lo stesso Bertinotti aveva concesso in Parlamento l’appoggio al governo di centrosinistra (ma senza entrare a farne parte con propri ministri); poi, nell’autunno del 1997, in cambio di un sofferto voto per la finanziaria, aveva ottenuto un impegno alla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore (da realizzarsi nei primi giorni dell’anno successivo); nel 1998 aveva atteso circa dieci mesi e infine, preso atto del fatto che le 35 ore erano finite in soffitta, aveva fatto saltare il banco andando a presidiare, da solo, il campo dell’opposizione. Consapevole, oltretutto, che tale rottura non avrebbe provocato un’interruzione della legislatura dal momento che era quasi pronto un governo guidato da Massimo D’Alema (governo della cui preparazione si stava alacremente ed esplicitamente occupando l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga).

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