Governo Draghi, le forzature pericolose nella maggioranza

di Massimo Franco

È un po’ troppo presto. Registrare i primi smarcamenti all’interno della maggioranza senza aspettare nemmeno che il Paese sia stato messo in sicurezza è preoccupante. Denota una visione ombelicale nella quale si mescolano calcoli politici e pulsioni caratteriali. Ma il saldo è comunque in perdita.

Vedere il leader Matteo Salvini alla testa della protesta di Regioni e Comuni della Lega perché Palazzo Chigi ha mantenuto il coprifuoco alle dieci di sera invece di spostarlo alle undici, lascia stupefatti. Per un aspirante premier è un atteggiamento populista. Anche perché appena la settimana scorsa lo stesso Salvini aveva esultato per le riaperture decise dal governo. Se le era intestate, con l’aria di chi si schermisce solo per sottolineare ulteriormente la propria vittoria. E su Mario Draghi aveva speso parole di stima e quasi di gratitudine. Di colpo, invece, è tornato a scartare, appoggiandosi come braccio armato anche alla conferenza delle Regioni guidata del leghista friulano Massimiliano Fedriga.

Forse soffre la sua concorrente di destra, Giorgia Meloni, che ha ironizzato su quel successo leghista sostenendo che sarebbe poca cosa e bisognerebbe riaprire di più e subito. Ma la leader di Fratelli d’Italia è all’opposizione e questo in democrazia fa la differenza.

Per la Lega è diverso. Ha ministri e sottosegretari. Si vanta di essere «il partito maggiore», seppure nei sondaggi e in fase calante. Giura col suo capo di essere «il più leale alleato di Draghi». Esclude di volere uscire dalla maggioranza, additando come eventuali sabotatori M5S e Pd. Rivendica di avere avuto con il premier sei telefonate nella sola giornata di mercoledì: conversazioni «amichevoli, franche e leali». Il problema è che mentre fa affermazioni così impegnative, Salvini piccona Palazzo Chigi. Rimprovera il governo di avere disatteso gli impegni con le Regioni. Scolpisce un «siamo leali ma non fessi» che dovrebbe essere la spiegazione e l’alibi per l’astensione sull’ora del «coprifuoco».

Dietro si intravede la pressione della lobby degli enti locali: un grumo di interessi che cerca a intermittenza di scaricare sullo Stato le inadempienze e gli errori collezionati nei lunghi mesi della pandemia. Riemerge, potenziato dalla collocazione bifronte di Salvini, il tentativo maldestro dei poteri periferici di tamponare la propria impopolarità. Viene utilizzato lo scontento comprensibile di chi, vedendo il proprio lavoro a rischio, sottovaluta i costi già sperimentati di una risalita dei contagi. Ma aizzare le Regioni e l’opinione pubblica contro «Roma» è una manovra particolarmente riprovevole in una fase nella quale si compie il massimo sforzo per voltare pagina con le vaccinazioni.

Sia chiaro: l’eterogeneità della coalizione guidata dall’ex presidente della Banca centrale europea è un fatto. Pensare che un governo in cui convivono grillini, dem e leghisti possa conciliare all’infinito obiettivi elettorali, inclinazioni culturali e interessi economici divergenti sarebbe da illusi. Ma che appena due mesi dopo la sua formazione l’esecutivo venga bersagliato dall’interno testimonia non solo scarsa consapevolezza del momento che l’Italia sta vivendo. Dimostra anche la miopia strategica di chi ritiene di potersi comportare come nel passato, a prescindere dalla fase nuova che si è aperta. Tentazione che peraltro non riguarda solo la Lega.

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