Banda Ultralarga, la lenta rincorsa italiana contro il digital divide. Ecco i dati su ritardi e cantieri aperti

Già perché dove non arriva il profitto è fondamentale l’intervento dello Stato, soprattutto in quelle che vengono ribattezzate “zone bianche”. Parliamo di aree marginali e quelle definite a “fallimento di mercato”, contrapposte alle zone nere (redditizie) dove i privati hanno interesse a investire e grigie (dove non sono previsti interventi per reti a 100mbps, ma solo per una velocità di 30mps e da un solo operatore privato).

La strategia italiana contempla voucher e incentivi alla domanda e all’offerta per stimolare le aziende e i consumatori a investire nei servizi, interventi diretti realizzati da Infratel, società pubblica dipendente dal ministero del Tesoro e soprattutto concessioni. I bandi ad appannaggio della copertura delle aree bianche del Paese sono stati assegnati a Open Fiber, società presieduta al 50% da Enel e Cassa Depositi e prestiti. 

Iniziative che sicuramente hanno portato dei frutti, come stabilito da uno studio recentemente dall’Autorità garante per le comunicazioni.

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Anche se lenta, è visibile distintamente l’evoluzione nell’accesso alla rete in Italia: diminuiscono strutturalmente gli accessi alla rete con tecnologie legate al rame, aumentano quelle su fibra o su tecnologia wireless (FWA). 

I ritardi sul piano di attuazione 

Non ci sono però solo buone notizie. La cattiva è che il piano di banda ultralarga è in ritardo con la tabella di marcia e che i cantieri avanzano in maniera differente regione per regione.

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Secondo il Mise ad oggi è stato completato appena il 20% dei cantieri per fibra ottica (1224) e il 10% (730) di quelli destinati al wireless. La diffusione dei servizi di banda larga (30mbps)  riguarda il 66,6% degli italiani, quelli per banda ultralarga a 100mbps appena il 20,3%.

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L’allarme è stato lanciato la scorsa estate dall’Uncem, l’Unione dei comuni e degli enti montani, che denunciava un ritardo di almeno due anni rispetto alla tabella di marcia e il forte rallentamento dei lavori anche per le linee wireless (FWA), essenziali per raggiungere anche le comunità più isolate. Un ritardo innegabile: a giugno dello scorso anno dovevano essere serviti oltre 3mila comuni, ne risultavano alla conta appena 200. Un problema ammesso, ai tempi, anche dall’Amministratore delegato di Infratel (società in house del Mise dedicata all’attuazione del Piano). “Siamo indietro di almeno due anni” aveva ammesso Marco Bellezza intervistato dalla trasmissione di Rai3 Report.

Il Covid ha fatto poi il resto, rendendo evidente a tutti cosa si intende per digital divide: “La pandemia ha messo in difficoltà parecchie famiglie su due aspetti, in primis sulla capacità di avere dispositivi  digitali e l’altro sulle connessioni. In molte case ci sono tre o quattro persone che devono collegarsi contemporaneamente per studiare e lavorare: il problema è riuscire a farlo con una banda limitata – spiega Dino Maurizio, presidente dell’associazione ‘Informatici senza frontiere’ – una dinamica molto comune nei piccoli centri, ma talvolta anche in città più grandi, che riguarda sia le famiglie, sia le imprese”. 

Ma i problemi riguardano anche la commercializzazione. Dove i cantieri sono ufficialmente conclusi, e la rete collaudata, il servizio va poi venduto agli operatori che devono poi erogarli agli operatori finali. A settembre dello scorso anno Infratel denunciava come ciò non fosse di fatto avvenuto in parecchi comuni.

Altro capitolo sono poi le promesse non mantenute degli operatori che, non di rado, tardano a fare investimenti programmati e la concorrenza di Tim, la cui rete si è sovrapposta talvolta a quella di Open Fiber originando una serie di contenziosi legali demandati all’antitrust.

Sul piatto c’è ancora una possibile fusione, nella realizzazione dell’infrastruttura tra FiberCop (Tim) e Open Fiber, che pare ancora in alto mare (anche per le perplessità sulla possibile ingerenza di Vivendi, maggior azionista di Tim) e la promessa del Governo di utilizzare parte del Recovery Fund per spingere sull’acceleratore della copertura digitale del Paese

Come ricordato dal ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao, in un’audizione alla Camera dello scorso 18 marzo in cui prometteva tra le altre cose un controllo forte e stringente sugli impegni promessi,  sono oltre 16 milioni le famiglie che al momento non accedono a internet o alla banda ultralarga. Nello stesso tempo il ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti chiariva come il Governo stia di fatto riflettendo su un piano di “rete unica” che ha tuttavia senso “solo se ha un controllo pubblico”. 

Una priorità, quella della connettività, ribadita da Colao a Radiocor, agenzia stampa del Sole 24 ore: “Col ministro Giorgetti abbiamo iniziato il lavoro per il piano Italia a 1 giga per portare la connettività ovunque. È un piano ambizioso, vuole arrivare al 2026 in buona forma”. Nessun commento sulla possibile rete unica, ma impegni per velocizzare l’installazione di antenne e cavi, per una mappatura più precisa di quanto già realizzato e per un piano da condividere con le istituzioni italiane ed europee. Vedremo se alle intenzioni seguiranno i fatti. Quel che è certo è che è necessaria un’accelerazione.

Dall’avvio operativo del Piano Banda Ultra Larga sono in totale 2.002 i comuni in commercializzazione (271 in più rispetto a dicembre 2020), 904 i comuni collaudati positivamente (227 in più rispetto a dicembre 2020), 4.252 i cantieri aperti (537 in più rispetto a dicembre 2020).

L’Italia a rischio digital divide 

A mettere sotto i riflettori il ritardo digitale del Paese ci pensa il consueto report del Desi, ovvero l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società europea. E i dati sono impietosi. L’Italia è al quart’ultimo posto tra i paesi UE in un ranking che mette insieme quattro parametri fondamentali: connettività, capitale umano, uso dei servizi internet e servizi pubblici digitali: dietro di noi solo Romania, Grecia e Bulgaria. 

Ancora una volta la manifestazione concreta di ciò che viene chiamato “digital divide”, ovvero quel solco invisibile tra chi ha ha un accesso adeguato alle nuove tecnologie dell’informazione, e chi no. Un solco che ha già un costo in termini di innovazione e progresso per tutto il Paese: “Il rischio è quello di non fare più innovazione e quindi prodotti non appetibili dal mercato, quello di avere un deficit di istruzione che lascerà indietro molti giovani, già spesso costretti ad andare a studiare all’estero. Lo Stato deve cambiare marcia, il mondo oggi si muove velocemente e la vecchia burocrazia non aiuta, ci sono da cambiare veri e propri paradigmi” sottolinea Dino Maurizio. 

In Italia solo il 61% della popolazione italiana utilizza la banda larga contro il 78% di quella europea. Le connessioni che arrivano fino a 100mbps sono utilizzate dal 13% dei nostri connazionali contro il 26% degli europei.  E sono molti gli italiani che, pur potendo, non scelgono di passare a una rete veloce, un problema che si interseca anche con quello di una corretta educazione digitale.

Ma anche la copertura delle nuove reti a banda larga e ultralarga non è paragonabile con quanto avviene in molti paesi europei.

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Secondo dati censuari del Desi, l’Italia a fine 2019 era indietro per copertura rispetto a molti paesi UE. E parliamo di proiezioni ottimistiche, basate su dati  raccolti a livello censuario. Agcom, sottolineava invece che a giugno 2019 appena il 38,2% degli italiani fosse coperto da una rete superiore ai 100mbps, mentre la copertura da 1Gbps raggiungeva appena il 15,5% della popolazione, come ricordava il sito Agenda Digitale.  Certo, parliamo di dati di ormai quasi due anni fa, ma che danno l’esatta proiezione di quali fossero i nostri nastri di partenza. Da dove parte la nostra lunga rincorsa contro il digital divide. 

LA STAMPA

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