Restart-up: dieci modeste proposte per ripensare il settore

È un po’ strano quando per anni scrivi e cerchi di attirare l’attenzione sulle difficoltà dei disoccupati e sulle contraddizioni del mercato del lavoro e quasi nessuno ti si fila, e poi scrivi un solo articolo sulle contraddizioni e difficoltà del modello start-up (sì, per me col trattino) e succede il finimondo. Avrei preferito avere tutta questa attenzione per parlare dei temi che mi sono più cari e che credo siano – appena un po’ – più urgenti. Tuttavia, dal momento che credo sia importante alla critica far seguire la proposta, e che un po’ inaspettatamente mi è stato data tutta questa attenzione da parte di una fetta consistente dello start-up system italiano, provo qui sulla base della mia esperienza e delle mie personali e quindi fallibili opinioni a dare qualche idea su come potrebbe rinnovarsi.

Ovviamente, mi rendo ben conto che queste opinioni e proposte sono del tutto non richieste. Ma proprio per questo penso che vadano fatte e possano essere utili. Startupper, incubatori e acceleratori amano spesso dipingersi come astronauti a bordo di un razzo: personalmente questa rappresentazione mi ha sempre fatto un po’ sorridere, poiché molto azzeccata. Sicuramente tutti loro sono ambiziosi, molti anche coraggiosi e diversi pure con capacità tecniche elevate come gli astronauti. Ma forse nella loro navicella a volte non si rendono conto che attorno a loro c’è il vuoto cosmico, e che la Terra – cioè dove c’è la vera economia, la vera società – è migliaia di chilometri distante da loro. Forse quindi qualcuno che ogni tanto lo ricordi può essere utile.

Primo: abbandonare per sempre il “finance-only”. Contestando il mio precedente articolo che suggeriva il fallimento del modello start-up, uno dei più noti investitori italiani ha scritto che «Amazon ha oggi una capitalizzazione pari al PIL italiano». Ora, a parte che Amazon non è mai davvero stata una start-up (Bezos partì con più di un milione di dollari raccolto tra i suoi amici di Wall Street), e facendo anche finta che non sia andata in perdita economica per quasi un ventennio facendo di fatto concorrenza sleale e producendo enormi esternalità negative sociali e ambientali, il fatto che oggi abbia un valore borsistico pari al PIL dell’ottava economia mondiale non è un inno di vittoria: è un allarme nucleare. Di tutte le 70 start-up “unicorni” americane, oggi solo 7 – il 10% – fa profitti. Ciò ha un solo precedente: la bolla dot.com. Finché le start-up saranno viste quasi esclusivamente come dei veicoli finanziari, poco o nulla di davvero buono ne potrà venire.

Secondo: prendersi il rischio e la responsabilità. Le start-up sono – o dovrebbero essere – aziende ad alto rischio di fallire. Giocare a questa partita vuol dire quindi rischiare: questo vale per gli startupper ma anche per gli investitori. Se si chiede a chi ha una start-up di finanziarsi con i soldi di famiglia e di portare prove – spesso sotto forma di fatture – che il business funziona prima di dargli dei soldi, o se si punta tutto o quasi a fare programmi di accelerazione con soldi pubblici o degli incubati (rispettivamente 20% e 25% dei ricavi degli incubatori italiani, a fronte del 7% proveniente dagli investimenti nelle start-up), non si sta facendo investimento di rischio: si sta facendo da banca o da cooperativa. E prendersi il rischio vuol dire anche prendersi la responsabilità, per esempio rendendo pubblici e trasparenti gli accordi delle IPO o i bilanci, senza trucchetti.

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