Ogni donna, una storia. La mimosa di un anno fa non è mai sfiorita

All’età di Anita la senatrice a vita Liliana Segre non andava già più a scuola da tempo, perché le leggi razziali le avevano precluso gli studi. Inossidabile all’offensiva negazionista che da quarant’anni piccona la memoria dell’Olocausto, sorride e ricorda. Nonna, mamma, figlia dell’amatissimo padre strappatole via per sempre sul binario morto di Auschwitz-Birkenau, Liliana Segre ha sostenuto passo dopo passo la battaglia degli studenti esauriti più dalle lezioni su Zoom che da Covid, una battaglia disarmata com’è lei, numero di matricola 75190, la donna che quando il capo del suo ultimo Lager gettò a terra la rivoltella non la raccolse e non lo uccise.

Donne di cristallo, infrangibili in apparenza ma fragilissime nel profondo. Come la cantante Elodie, coriaceo fiore del deserto, che ha ammutolito l’Italia sintonizzata su Sanremo raccontando di come fosse cresciuta povera, disagiata, nella borgata senza acqua calda ma con tanta gente arrabbiata. L’emancipazione che passa per il naufragio, con la testa tesa a pelo d’acqua per non annegare e i muscoli contratti fino a non sentirli più.

Zhang Zhan, Anita Iacovelli, Liliana Segre, Elodie, Kamala Harris, il già leggendario fattore K che ha consegnato al neo presidente americano Joe Biden i sogni e le speranze delle donne di colore (e non solo). Kamala Harris, la prima vice commander in chief della storia che il giorno del giuramento indossa un abito bianco in onore delle suffragette. Sarà che l’anno appena trascorso pare aver rinchiuso tutti in sé stessi come monadi autosufficienti, ma il messaggio di wonder woman Kamala Harris, che nell’autobiografia The Truths We Hold (Le nostre verità) scrive di quanto debba all’ottimismo della volontà collettiva («Niente di quanto ho realizzato avrei potuto raggiungerlo da sola»), è una mimosa sempreverde.

E poi, ancora, ultima di questa simbolica lista la cui autorevolezza è inversamente proporzionale ad abiti e titoli, Loujain al-Hathloul, la trentunenne attivista saudita liberata un mese fa dopo 1001 giorni di prigione, una pena lunghissima inflittale dai giudici di Riad per aver osato guidare la vettura sulle strade rigidamente precluse alle donne. Le contestavano il reato di terrorismo e sabotaggio del sistema politico. E pazienza se nel frattempo, mentre lei da dentro denunciava abusi e torture, il re, con una magnanima legge calata dall’alto, sdoganava le automobiliste: nella petrol-monarchia passata con la scoperta del petrolio dal Medioevo a Odissea nello spazio il patriarcato procede con metodo, il solito, colpirne una per educarne cento.

A riavvolgere il nastro di quest’anno, la mimosa dell’8 marzo 2020 non è mai sfiorita. Un mazzo ogni giorno, in ogni Paese. Per Zhang Zhan, Anita Iacovelli, Liliana Segre, Elodie, Kamala Harris, Loujain al-Hathloul e per Marise, la sempre più confusa sorella di Patrick George Zaki che tiene insieme i cocci del suo dolore perché i genitori non si spezzino. Per la femminista Isabel Cabanillas, ammazzata mesi fa da quel Messico che odia l’altra metà del cielo. Per tutte le donne, sempre, giorno e notte, per loro e per gli uomini che coltivano i fiori.

LA STAMPA

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