Draghi ha un ostacolo: si chiama Conte

Chiudete gli occhi, e immaginate la scena. Giuseppe Conte che, in questo tornante storico, fa il discorso che non ti aspetti, compiendo quel salto, dall’antipolitica alla grande politica, nel quale la leadership cessa di essere esercizio personale del potere e diventa cura dell’interesse generale: “Signori, di fronte al drammatico appello del capo dello Stato che chiama tutti a un’assunzione di responsabilità, abbiamo tutti, e io per primo che ho cercato di onorare il compito con impegno e lealtà repubblicana, il dovere di una risposta al paese sostenendo lo sforzo di un grande patrimonio dell’Italia come Mario Draghi per uscire dalla crisi. In questo momento c’è in gioco l’Italia, qualcosa di più grande dei destini personali e noi tutti abbiamo il dovere di essere all’altezza del momento”.

E adesso, riaprite gli occhi, in una giornata straordinaria vissuta con spirito ordinario, come se il governo Draghi fosse un “ter” legato alla permanenza di questo o quel ministro, accettabile se c’è qualche politico, non accettabile se c’è qualche tecnico. O, peggio ancora, un tentativo da far naufragare come se, una volta fallito, ci fosse un dopo. Perché al fondo dell’intransigenza dei Cinque stelle, che trova a Palazzo Chigi un’attenta regia, c’è questo: l’idea che, se non parte il governo Draghi, si possa tornare alla situazione precedente, magari sperando, tesi costituzionalmente discutibile e politicamente fantasiosa, che il capo dello Stato possa rispedire alle Camere il governo precedente.

C’è qualcosa di drammatico in questo “fuori sincrono”, tra la crucialità del momento e la sua gestione, come se non fosse evidente che un’eventuale rinuncia di Draghi rappresenterebbe il collasso dell’Italia. Il segno cioè che la crisi del sistema politico trascina nel default l’intero paese: l’euforia dei mercati – mai si era visto da cinque anni a questa parte uno spread così basso – che si trasformerebbe in tragedia, la credibilità internazionale in discredito, la tenuta istituzionale in frana, perché tale è una sfiducia implicita nel capo dello Stato. Insomma, nel mondo sarebbe chiara la percezione che non c’è più nulla da fare in Italia e, probabilmente anche nel nostro paese, chiamato a votare nella campagna elettorale più costosa della sua storia, pagata al caro prezzo dei soldi sprecati del Recovery e di un rischio sanitario enorme, perché mai si sono visti comizi a un metro di distanza.

Ecco, l’incognita stupefacente nell’Italia populista è tutta in questo “fuori sincrono”, in cui i singoli tasselli hanno fatto finta di ascoltare il capo dello Stato senza riuscire a comporre il puzzle di una condivisa responsabilità. Con non poca fatica il Pd, che quella responsabilità ce l’ha nel dna, ha seguito le indicazioni del Quirinale, con la timidezza però di chi vive il momento come una dura necessità, non come un’opportunità che, in altri tempi, avrebbe proposto facendosi carico di un interesse nazionale più vasto della tutela della sua delegazione nel precedente governo. Senza tanto entusiasmo, il sostegno è arrivato anche da Forza Italia. La profonda linea di incertezza riguarda i partiti populisti. Parliamoci chiaro: Salvini che nelle corde ha solo l’orizzonte del voto è stato costretto a una apertura altrimenti avrebbe subito una “scissione” prima ancora che dei suoi parlamentari dal suo mondo produttivo del Nord, quell’Italia che lavora e che produce che davanti al falò dei mercati si armerebbe di forconi sotto via Bellerio.

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