Per uscire dalla crisi serve lo spirito del ‘46 con un governo di tutti

Giovanni Guzzetta

Anche nella crisi l’Italia conferma la propria anomalia. Presi dalla rincorsa a ogni spiffero che proviene dalle stanze in cui si svolgono conciliaboli e trattative, e che talvolta nobilitano persino i pettegolezzi più triviali, ci dimostriamo ancora una volta una democrazia del terzo tipo. La crisi è stretta tra due vincoli.

Il primo è, che, a causa di un sistema elettorale prevalentemente proporzionale – e che qualcuno vorrebbe rendere ancora più proporzionale – le elezioni del 2018 non hanno prodotto un maggioranza parlamentare corrispondente alla volontà degli elettori. E dunque i governi succedutisi sinora sono frutto dell’accordo tra schieramenti fieramente antagonisti nella campagna elettorale.

Questa circostanza, che nelle grandi democrazie, è vista come una sciagura, con la conseguenza che i governi tra avversari sono un male necessario che nessuno si augura, da noi sono la normalità, che tolleriamo allargando le mani e raccontando agli elettori che purtroppo non si poteva fare altrimenti. In quel “purtroppo” c’è tutta l’ipocrisia di un sistema politico che non ha mai voluto veramente fare quelle riforme che ci allineassero agli altri paesi. È l’anomalia italiana, bellezza! E la questione viene subito archiviata. L’eccezione degli altri è la nostra regola. E, a quanto pare, va bene così.

Il secondo vincolo è quello di considerare le elezioni come extrema ratio. Una circostanza che, nel pieno di una pandemia, ha certamente ragioni a proprio sostegno. Ma ancora una volta dimentichiamo che da noi l’orrore delle elezioni è sempre stato un mantra che ha attraversato l’intera storia repubblicana. Le due cose si tengono. Se è scontato che le elezioni producano esiti incerti (e anzi si fa di tutto per evitare che questa situazione cambi) perché bisognerebbe anticiparle quando c’è una crisi di governo? E l’anomalia italiana, bellezza! Un solo governo per legislatura (la normalità altrove) da noi è considerata l’illusione naïv di qualche sognatore.

Tra questi due dogmi tranquillamente accettati non stupisce allora che la prima cosa a cui si pensi per risolvere la crisi sia un governo partigiano. Un governo cioè fatto da partiti più o meno vicini politicamente (benché siano stati acerrimi nemici alle elezioni) e comunque meno distanti dagli altri. In democrazia del resto che i governi siano “partigiani” è nelle cose. Dall’altra parte sta l’opposizione. Peccato però che nell’anomala democrazia italiana tutto ciò, nella situazione in cui siamo oggi, rasenti l’assurdo. Sono giorni che, per fare quel governo partigiano, si registra ogni genere di manovra per procacciare puntelli e sostegni alla “parte” che vuole governare. E vuole governare appunto come “parte”, con le idee (legittime) di parte, per fare una politica di parte.

Ora, ciò che è normale in situazioni normali (governare con una politica “di parte”) diventa, appunto, assurdo nel contesto in cui siamo. Perché la legittimazione a governare come parte non è stata decisa dagli elettori, che assistono impotenti e attoniti al susseguirsi di conversioni e transumanze motivate, nel migliore dei casi, dalla volontà di aiutare una “parte” a vincere, e molto più spesso dalla promessa di un ministero, di un sottosegretariato o un po’ di visibilità.
Ma l’assurdità vera in questo accanirsi nel formare un governo partigiano, sta nel fatto che oggi la posta in gioco non è partigiana affatto.

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