Il sistema sbagliato

di Angelo Panebianco

Sarà la norma, bisogna abituarsi. La legge elettorale in vigore è formalmente mista (proporzionale più una residua quota maggioritaria) ma i comportamenti politici, in questa legislatura, sono stati identici a quelli che si hanno in tempi di proporzionale pura. Come si è visto in questi anni i governi si formano e si disfano in Parlamento e i partiti possono designare come primo ministro chiunque vogliano, anche chi non disponga di una precedente legittimazione elettorale.

Si va da un governo all’altro, dal Conte 1 (5 Stelle e Lega) al Conte 2 (5 Stelle e Pd), senza passaggi elettorali e quando, come è appena accaduto, un partito di governo se ne va aprendo una falla nella maggioranza, il primo ministro va a caccia di transfughi che possano tappare il buco. Il probabile imminente varo di una legge elettorale compiutamente proporzionale (auspicato da Conte) non sarà quindi uno strappo molto forte. Le coalizioni di centrosinistra e di centrodestra rimarranno in vigore a livello locale e regionale (dove vige il principio maggioritario). La novità sarà che quelle coalizioni non esisteranno più neanche formalmente a livello nazionale.

A dirlo oggi si rischia di passare per nostalgici di una stagione ormai conclusa ma ci sono due ottime ragioni per preferire i sistemi maggioritari a quelli proporzionali. La prima è che, in regime di maggioritario, la guida del governo spetta a chi ha ricevuto un mandato popolare: Silvio Berlusconi e Romano Prodi, nella breve stagione maggioritaria, si alternarono al governo del Paese in funzione dei voti presi dalle coalizioni da essi guidate. Il vincitore aveva la forza di chi ha ricevuto una investitura elettorale. Niente di strano. È ciò che accade normalmente in democrazie così diverse (una parlamentare, una semi-presidenziale, una presidenziale) come la britannica, la francese, la statunitense. State certi che da noi ciò non accadrà mai più.

Ma c’è anche una seconda ragione per apprezzare i sistemi maggioritari. Confrontiamo una democrazia ove il principio maggioritario si sia consolidato (in Italia non avvenne, la stagione maggioritaria fu troppo breve) con una democrazia ove sia in vigore la proporzionale e che, per giunta — è la situazione italiana di oggi — sia priva di partiti solidi, strutturati, con un forte insediamento su gran parte del territorio nazionale. Da un caso all’altro varierà drammaticamente il rapporto fra i «beni privati» che il governo distribuisce e i «beni pubblici» che esso produce. I beni privati sono benefici ad hoc distribuiti a singole persone o a gruppi di persone. Sono il frutto di politiche assistenziali o clientelari o una loro combinazione. Invece i «beni pubblici» sono benefici che ricadono sulla collettività nel suo insieme: misure per la crescita economica, investimenti in infrastrutture o nell’istruzione, riforme volte a dare più efficienza all’amministrazione, al sistema giudiziario, eccetera.

Checché ne pensino coloro che amano discettare di mondi mai esistiti, anche il miglior governo concepibile distribuirà, per lo meno, una quota minima di beni privati. Il punto è un altro: il governo che stiamo osservando si impegna anche nella produzione di beni pubblici (beni per la collettività) oppure la distribuzione di beni privati è la sua attività prevalente?

I sistemi maggioritari quando sono consolidati favoriscono, per lo meno, un certo equilibrio: i governi distribuiranno una quota di beni privati ma senza rinunciare a generare beni pubblici. Una prova indiretta è data dal fatto che in tempi normali (senza pandemie o guerre) questi governi gestiscono le finanze pubbliche con più rigore di quanto non facciano i governi espressi da sistemi proporzionali.

Perché ciò accade? Perché laddove sono in vigore sistemi maggioritari di solito è più lunga la permanenza in carica del capo del governo e dei suoi ministri. I titolari dei ministeri si aspettano di restare tali, salvo incidenti di percorso, per diversi anni. Hanno il tempo per produrre beni pubblici, ossia per migliorare il loro settore di competenza. Sanno che, alla fine del mandato, saranno giudicati anche per questo. Inoltre, i parlamentari di maggioranza sono sottomessi al governo dal cui successo dipendono le loro chance di rielezione.

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