La seconda volta tra rabbia e frustrazione

di Antonio Polito

«Quando un Paese è grande una volta — ha detto il presidente Conte — deve essere grande sempre». Non è chiaro se quel «deve» equivale a un pronostico o è invece una «raccomandazione», come le altre impropriamente inserite nel testo normativo del Dpcm. Se è una previsione, non pare però fondata su dati di fatto. Prima di tutto perché la storia è purtroppo piena di «seconde volte» andate peggio della prima: dalla seconda ondata di influenza «spagnola» alla Seconda guerra mondiale. Poi perché il pessimismo della ragione ci ricorda che se una cosa può andare male, se cioè non si è fatto tutto il possibile perché andasse bene, è probabile che andrà male. E infine perché il Paese è stanco di sentirsi chiamato a essere di nuovo «grande», visto che l’altra volta, in primavera, abbiamo pianto 35 mila morti, e tanto bene non ci era davvero andata. Del resto, fuor di retorica, è stato lo stesso capo del governo, nella stessa conferenza stampa, a dire che cosa provano davvero gli italiani in queste ore: «stanchezza, ansia, rabbia, frustrazione, sofferenza». Per ognuno di questi sentimenti c’è una ragione. Vorrei soffermarmi su «rabbia» e «frustrazione», perché sono due stati d’animo che chiamano in causa l’operato dei poteri pubblici.

La rabbia deriva dalla convinzione che gran parte di ciò che era stato promesso, garantito, programmato, non è stato fatto. Prendiamo i «tracciatori», la prima linea che ormai tutti dichiarano già travolta. Ce ne sono 9.241 in Italia (fonte Sole 24 Ore). Nessuno può essere stato colto alla sprovvista dalla necessità di averne di più. Eppure dopo più di tre mesi sono aumentati di appena 275 unità.

Nell’area metropolitana di Milano, tre milioni di abitanti, ci sono solo 25 medici delle Usca, le «unità speciali» che dovrebbero controllare i positivi nelle loro case invece di intasare gli ospedali: era stato previsto un fabbisogno di 130.

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