Conte non risolve l’alternativa del Diavolo

Dicevamo, l’estenuante mediazione: con le Regioni, che non volevano le chiusure dei ristoranti, e nel governo rispetto alla linea dura di Speranza e Franceschini. Perché, insomma, di dirompente questo provvedimento ha assai poco, rispetto al precedente di pochi giorni fa. La misura più radicale – la chiusura delle zone della movida e a rischio assembramenti – è affidata ai sindaci (scaricata sui sindaci, se preferite). Sulle palestre si è preso tempo, nonostante la pressione del ministro della Salute. C’è una stretta su convegni, fiere e congressi. Ci sarà più smart working. Sulla scuola invece resterà aperta, ma scaglionando gli ingressi e consentendo, ove necessario, la didattica a distanza (già previsto dal precedente dpcm). Il che ripropone un altro già visto di questa lunga crisi, sin dai tempi dei lockdown e poi delle riaperture delle discoteche: una sorta di “federalismo virale” di fatto, in cui le regioni prendono decisioni che il governo è parzialmente in grado di inserire in un quadro di coerenza. Un federalismo senza le regole dello Stato federale, ma con la legge del più forte. Detto in altri termini: De Luca ha chiuso le scuole, il governo risponde scaglionando gli ingressi, ma nessuno impugna la decisione di De Luca. Bene, dunque: se domani il governatore della Campania non si adegua, siamo appunto al “federalismo di fatto”, basato sul principio del più forte, che oggi è De Luca, domani chissà.

L’obiezione è nota: è una situazione così difficile che come fai sbagli. Fino a un certo punto però. Perché ciò che era lecito a marzo di fronte all’ignoto, lo è un po’ meno oggi davanti a ciò che è noto. In mezzo c’è la prevenzione mancata, i controlli e anche il ministero dell’Interno, che sull’osservanza delle regole ha delle responsabilità. Parliamoci chiaro: le parole di Conte rivelano che, di nuovo, il paese è stretto in una alternativa del diavolo tra le ragioni della salute e quelle del Pil, per cui la tutela della prima avviene sacrificando il secondo, e in questa morsa ci sono tutte le prudenze, cautele, esitazioni sulle misure, di fronte al timore d’esplosione della rabbia sociale. Perché diversamente da marzo in cui la paura per la salute era un collante così forte da far accettare sacrifici estremi, adesso che la paura sanitaria si congiunge con la paura di non farcela, non è più un elemento che unisce, ma che lacera il tessuto profondo del paese.

Il problema è questa morsa è solo in parte l’esito di un destino cinico e baro. È anche il frutto di scelte e di non scelte che hanno mostrato la nostra incapacità di convivere col virus, coniugando Pil e salute e, al tempo stesso, democrazia e pandemia, mantenendo lo stato di emergenza che rappresenta il vero collante politico di un governo nato per caso. Alla fine, il dato di giornata è che la macchina, in definitiva, la guida Conte: preoccupato della sostenibilità sociale delle misure è riuscito a imporre un provvedimento molto più soft rispetto a quello che voleva l’alleato di governo, scaricando sui sindaci la responsabilità di scelte draconiane, ha pure preso tempo sulle palestre e, non è un dettaglio, ha sepolto il Mes in quanto – testuale – misura che rischia di aumentare il debito (proprio così: dopo che è stato portato a quota 160 di Pil, si scopre che il debito è un problema sulla misura invisa ai Cinque Stelle). Si ricomincia, in questa undicesima puntata (con l’undicesimo dpcm) del format. Pare marzo, in questa puntata, anche se è ottobre. Titolo: Ritorno al futuro

L’HUFFPOST

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