Coronavirus, Paolo Giordano: agire subito sulle aree a rischio, il tempo sta scadendo

I numeri che stiamo vedendo con apprensione crescente vogliono dire in ultima istanza questo: abbiamo davanti molti altri morti. È con questa idea ben piantata in testa che dovremmo domandarci se le misure messe in campo e quelle ventilate siano davvero le migliori. Un mese e mezzo fa, se mi trovavo a discutere con qualcuno dell’eventualità di un altro lockdown, dicevo: è impensabile. Ora mi contraddico, ma non me ne vergogno. Contraddire sé stessi, farlo più e più volte, è quasi inevitabile in questa situazione: viviamo con un orizzonte temporale di un paio di settimane al massimo, un’altra conseguenza scomoda della non-linearità. La crescita esponenziale dilata il tempo in cui siamo.

L’aumento dei contagi rende ogni giornata più decisiva, più «lunga» della precedente. Per questo, sentir parlare adesso di Natale è ridicolo: il 25 dicembre, nel tempo curvato dall’epidemia, è lontano non due mesi ma due anni. Intanto la paura, dalla primavera a oggi, è cambiata. Se a marzo temevamo la malattia, ora la paura prevalente è quella di un altro lockdown, è legata all’assumere che tutto debba ripetersi uguale, con l’intero Paese paralizzato per molte settimane di fila. Entrambi gli aspetti — la paralisi completa e la sua durata — sono ancora evitabili e devono essere scongiurati. Ma il tempo a disposizione è poco, pochissimo, e si accorcia sempre più in fretta. Innanzitutto, dovremmo smetterla di parlare del lockdown e iniziare a considerare i lockdown. Mirati, localizzati, tempestivi e a tempo ridotto.

Potremmo pensare di cambiargli anche nome, per limitare quel senso angoscioso di déjà-vu che attanaglia molti di noi nelle ultime ore. Chiamiamoli «lockdown selettivi», «semi-lockdown», chiamiamoli «congelamenti» o come ci pare, ma iniziamoli subito, dovunque servono, dove la crescita è già esponenziale, anche e soprattutto se si tratta di grandi città. Perché ogni giorno di attendismo, di misure parziali, di discussione interna sulle nove di sera o le dieci o le undici; ogni giorno di rimpallo fra governo e regioni non equivale a un giorno in più dei semi-lockdown che infine verranno introdotti, ma a molti giorni di più. E quello stesso attendismo, tra una settimana, ci costerà ancora più caro, per la solita trappola della non-linearità. Prima si parte con misure stringenti dove servono, meno restrizioni si subiranno dopo e per minor tempo; prima si parte, maggiore è la probabilità di scongiurare un altro lockdown nazionale.

Se nel frattempo siamo diventati insensibili perfino ai morti, traduciamo gli indugi attuali così, nei giorni di isolamento che rischiamo, e forse torneremo a essere persuasivi. Il monitoraggio deve quindi stabilire quali sono le unità territoriali in cui va suddivisa l’Italia e a ogni zona deve essere associato un livello di rischio; ognuno di noi deve sapere quotidianamente in che livello di rischio si trova e quali sono le restrizioni associate, restrizioni che vanno dalla rinuncia (per tutti) a ogni attività non-essenziale che favorisca il contagio, fino a dei veri e propri blocchi. La mobilità fra le diverse unità territoriali andrebbe, di nuovo, ridotta all’indispensabile, per garantire questa differenziazione geografica, uno degli aspetti su cui finora il sistema ha fallito più gravemente e colpevolmente. E tutto questo, complicato com’è, andrebbe fatto con le scuole aperte il più possibile, lasciando perdere la logica del «tutto o niente», del «tutta l’Italia o nessuno» che sembra ancora dominare nel governo e nelle regioni, e abbracciando finalmente quella del «massimo concesso» in ogni realtà specifica.

Un massimo da concedere, innanzitutto, proprio alle scuole. I semi-lockdown, purtroppo, non sono un’eventualità, sono già inevitabili. Andrebbe detto con chiarezza alla popolazione, spiegando le differenze con marzo e aprile. Ed è adesso, oggi, che ci giochiamo la differenza fra Il Lockdown come l’abbiamo conosciuto, con tutte le sue conseguenze nefaste sulle persone e le economie, e i semi-lockdown localizzati, più brevi e sopportabili. Ciò che è stato non dev’essere identico a ciò che sarà, ma se non si agisce immediatamente e con il massimo vigore nelle zone compromesse rischia di esserlo. Va spiegato che dove il tracciamento è affaticato e sta fallendo, dove la linearità finisce, le chiusure arrivano per forza. Non c’è rafforzamento delle terapie intensive che tenga, né aggiustamento di orari. Senza un contenimento decisivo il sistema viene travolto.

In matematica si usa dire che «l’esponenziale vince su tutto», e così è purtroppo. C’è molto da analizzare sul come e sul perché siamo ripiombati qui e con quest’aria un po’ sorpresa, ma ancora una volta, prima di attribuire responsabilità e negligenze, c’è da affrontare l’urgenza. Se il monitoraggio è ancora in grado di distinguere quali sono le zone ad altissima circolazione del virus — lo ripeto: se è in grado —, quelle aree vanno congelate subito. Perché andavano congelate almeno tre settimane fa. Senza «stiamo a vedere», «proviamo», «valutiamo», senza andare per gradi per non scontentare le persone. La gradualità non ci è concessa. Il ritardo che stiamo accumulando in quelle aree esponenziali è una sproporzione di morti futuri e di giorni aggiuntivi di semi-lockdown che comunque quelle zone arriveranno a fare. Il coprifuoco notturno non avrà la forza di riportarle dal regime esponenziale a quello lineare, al regime in cui dire domani o dopodomani o Natale ha ancora un qualche senso.

CORRIERE.IT

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