Ennio Morricone e la moglie Maria: «Con lei una storia lunga 70 anni: la convinsi quando era in ospedale…»

di Aldo Cazzullo

Ennio Morricone e la moglie Maria: «Con lei una storia lunga 70 anni: la convinsi quando era in ospedale...»

Dalle finestre della sua casa di un tempo, tra il ghetto e il Campidoglio, si sentiva il rumore del traffico di Roma: ogni clacson, ogni sgommata. Quando il frastuono si faceva insopportabile, Ennio Morricone si sedeva al pianoforte, e iniziava a suonare, a comporre, a cercare le sue musiche. Non aveva perso l’accento di Trastevere, dov’era nato novantuno anni fa. Ma era un romano di una volta: cortese, disponibile, semplice.
«Sono cattolico, votavo Dc, ma ho sempre considerato Gesù il primo comunista – diceva -. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati…».

Nei suoi ricordi c’era quasi un secolo di storia italiana: «Nella mia famiglia, il fascismo non l’abbiamo vissuto come un dramma. Però quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite. Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti al Florida di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella». Poi arrivarono gli americani; «e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate – e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa. La notizia della morte del Duce mi lasciò indifferente. Però quando vidi le sue foto, appeso al distributore di piazzale Loreto, mi commossi. Piansi anche per il re, quando perse il referendum e fu costretto all’esilio. Certo, sapevo che Vittorio Emanuele III se l’era squagliata, ma per me la monarchia era l’Italia del Risorgimento, che finiva per sempre».

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