L’illusione di pilotare l’ascesa al Colle

Inutile importunare altri personaggioni, il concetto è già chiaro: nemmeno agli albori della Repubblica, quando i partiti spadroneggiavano e i leader avevano prestigio, la corsa al Colle poteva venire decisa a tavolino. Del resto i numeri non lasciano dubbi. Nelle 13 elezioni presidenziali (comprendendo quella di Enrico De Nicola nel 1946), raramente è andata liscia come l’olio. Ce la fece al primo tentativo Francesco Cossiga nel 1985 in quanto nessuno sospettava  di eleggere un “Picconatore”, dunque tutti lo sostennero fiduciosi. Idem Carlo Azeglio Ciampi sul finire dello scorso millennio: raccolse la bellezza di 707 voti su 1010 grazie a quella sua bella espressione di nonno sorridente, e poi perché non aveva padrini. Giorgio Napolitano nel 2013, dopo che i famosi centouno franchi tiratori avevano affondato la candidatura di Romano Prodi, venne implorato di restare e accettò la rielezione prendendo a sberle l’intero arco parlamentare che stava per votarlo. Nonostante ciò, fu un trionfo.

Giuseppe Saragat nel 1964 ce la fece, ma quanta sofferenza: venti fumate nere di fila. Sandro Pertini, insieme all’inseparabile pipa, profittò del crollo politico e morale di una Dc braccata da Bettino Craxi e dagli scandali, altrimenti mai sarebbe toccata a lui che già allora sfoderava una retorica d’altri tempi (“Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai!”). Oscar Luigi Scalfaro non ne parliamo: sembrava un pezzo d’antiquariato. Redarguiva le signore a suo avviso troppo scollacciate. Nel 1992 spuntò fuori alla distanza dopo un’ecatombe di competitor illustri (a questo proposito riceviamo un whatsapp da Giulio Andreotti che precisa: “Non è vero che la mia candidatura cadde dopo l’attentato di Giovanni Falcone a Capaci, come si dice in giro per accreditarmi come mafioso. In realtà ce l’avevano con me i forlaniani perché nel segreto dell’urna avevo appena affondato il loro leader”).

A conti fatti, un presidente è stato imposto dalla maggioranza di governo soltanto tre volte in 74 anni, che sono tanti. La prima capitò nel ’62 con l’elezione di Antonio Segni. Aldo Moro riuscì a farlo eleggere senza fare una piega dopo ben otto tentativi a vuoto. La seconda fu nel 2006 quando passò Giorgio Napolitano con appena 37 voti di margine, però sullo slancio delle elezioni politiche appena vinte (e fortunosamente) dall’Ulivo. Infine la terza nel 2015 con Sergio Mattarella; e qui Renzi può giustamente rivendicare qualche suo merito. Da leader del Pd, fu lui a proporre il nome, lui a farlo votare nonostante mai si fossero frequentati e nemmeno conosciuti. Pur di piazzare Mattarella sul Colle, Renzi ruppe il famoso “patto del Nazareno” stipulato con Berlusconi proprio per scegliere il presidente insieme. Adesso il senatore di Rignano propone un patto ancora più spericolato per blindare il successore di Mattarella e negare daccapo al centrodestra un capo dello Stato in cui riconoscersi. Gli è andata di lusso già una volta. Sul “bis” è lecito dubitare. 

L’HUFFPOST

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