Il codice di Mario Draghi che serviva alla nostra scuola

di   Carlo Verdelli

Una strada c’era, una soltanto: applicare alla scuola italiana, disastrata al quadrato o al cubo dopo l’interminabile paralisi da Covid, il codice Draghi, quel «whatever it takes», tutto quello che è necessario (oppure: costi quel che costi), appena entrato a buon diritto tra le voci definitive del dizionario Treccani. Con quelle tre parole in inglese, pronunciate con asciutta fermezza il 26 luglio 2012 in una Londra ostile, l’allora presidente della Banca centrale europea salvò l’euro dalla tempesta perfetta che stava per abbattersi sui Paesi più deboli, Italia compresa. La risposta alla tempesta perfetta che a settembre rischia di completare l’opera di demolizione della nostra istruzione pubblica sta all’approccio di Draghi come il nadir allo zenit.

Il piano proposto dal ministro competente è uno scarico di responsabilità sulle singole Regioni, i singoli presidi, i singoli insegnanti: da settembre si ricomincia, arrangiatevi. Sì, ma i banchi singoli? E gli spazi per il distanziamento, con il 40 per cento degli edifici non a norma? E il personale docente che mancava già prima e che andrebbe rafforzato di almeno altre 100 mila unità per affrontare le lezioni in più turni? E gli assistenti, i bidelli, il corredo supplementare di fatiche per sanificare aule e ambiti comuni? E la didattica a distanza, che pare certo proseguirà: dov’è il capitolo con le misure pratiche per superare le difficoltà di connessione e dotare tutti degli strumenti indispensabili per non restare tagliati fuori? Risposte non ci sono, o forse chi lo sa, magari il vento ce le porterà. Ma dovrà correre, quel vento, perché il niente che è stato messo sul banco ci è arrivato pure fuori tempo massimo. Davanti, appena due mesi, luglio e agosto, tradizionalmente poco adatti per organizzare imprese impossibili. Con un ulteriore, doppio aggravio: risorse risibili e un sistema che già prima del virus era in stato di imperdonabile abbandono.

Il problema non è tanto il ministro competente, che ha comunque ottenuto che il pensatoio di Colao non si occupasse di istruzione perché c’era già una brillantissima task force al lavoro sul tema (e si è visto con quali lodevoli risultati). Il problema vero è che declassare l’educazione a emergenza secondaria, anzi a ultima delle emergenze, è la spia di un governo dal pensiero corto, molto più preoccupato della tattica dell’annuncio a effetto piuttosto che del destino complicato da immaginare per questo Paese. Sul nodo centrale della scuola, l’elenco delle irresponsabilità va dal presidente del Consiglio, passando per i titolari dei dicasteri di maggior peso, per completarsi con i segretari (veri o presunti) delle forze (grandi o minime) che costituiscono questa maggioranza. Una prova corale di negligenza collettiva, oltretutto ingiustificabile, almeno stavolta, con l’alibi di non dare vantaggi all’opposizione variamente salviniana.

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