Zangrillo: “Il Covid? Ho avuto paura. Ora temo gli effetti sulla nostra società”

Alessandro Sallusti

Professore, partiamo dall’inizio di questa storia. Il suo primo paziente Covid.

«Fine febbraio, non ricordo né il giorno né il paziente. All’inizio nessuno di noi aveva capito. Ricordo benissimo di essermi recato all’ospedale di Lodi. Lì ho compreso che la situazione era grave».

Cosa ha pensato quel giorno, immaginava che avrebbe avuto suo malgrado una parte da protagonista in un film come quello che ha vissuto?

«Prima o poi qualcuno il film lo farà e la premessa sarà: tratto da una storia vera, genere dramma con tanti attori protagonisti, i primi dei quali, cui va il nostro pensiero, i nostri malati, i nostri morti; poi noi tutti, medici, infermieri, specializzandi. Il mio ruolo: organizzare, prevedere, decidere, cercare di sbagliare il meno possibile».

Ha avuto paura, se sì che tipo di paura, intendo se per lei, se per i suoi pazienti, per il mondo intero?

«Sì ho avuto paura e non me ne sono mai vergognato, ho avuto paura per me ma soprattutto per i miei infermieri e i miei collaboratori. I pazienti sono sempre stati al centro della nostra azione, abbiamo capito da subito che chi arrivava in ospedale ci veniva affidato e aveva solo noi come riferimento. Il mondo in qualche modo ci guardava perché prima di noi c’era la Cina con tutti gli interrogativi che ancora oggi non hanno tutte le risposte».

Qualcuno in quelle ore ha usato il termine «lazzaretto» per definire i reparti di terapia intensiva. Si è sentito offeso oppure…

«La terapia intensiva è il luogo dove lo specialista applica le terapie più avanzate con l’obiettivo di regalarti il ritorno alla vita. In terapia intensiva conta il fattore umano, la competenza, il sacrificio, lo studio appassionato e il continuo confronto. La tecnologia conta nulla rispetto al gruppo di lavoro. Prima della competenza serve però la consapevolezza dei nostri limiti».

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