Alzano e Nembro: i soldati pronti a chiudere, ma l’ordine non arrivò mai

I contagi il primo marzo

La sua denuncia cade nel vuoto. Il primo marzo, i contagi toccano quota 43 a Nembro, 19 ad Alzano. Ancora il giorno dopo, l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera si dice contrario all’istituzione di una eventuale zona rossa, esprimendo «forti dubbi» sulla sua utilità. È come se per una lunga settimana fossero esistite due realtà parallele. Mentre imprenditoria e politica, compresi molti amministratori locali della zona, frenavano sull’ipotesi di provvedimenti urgenti, gli ospedali della provincia di Bergamo vivevano un dramma difficile persino da raccontare. In quei giorni il pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII sembra un ospedale da campo. Decine di pazienti con polmoniti gravi, che rantolano, sulle barelle, nei corridoi. Viene aperta la sala maxi-afflusso, destinata a terremoti e calamità naturali, ma non basta.

Il caso Alzano

Alla fine, prevalgono i fatti, come sempre. Nella provincia di Bergamo è in corso una strage. Ma da dove è partito il contagio? Lo ha già detto Rizzi, è ormai cosa nota. Al Pesenti-Fenaroli di Alzano succedono cose strane. A partire dalla seconda metà di febbraio vengono denunciati dai familiari delle vittime almeno cinque casi di decessi dovuti a polmonite interstiziale. Si tratta di pazienti ricoverati in corsia, nel reparto di medicina generale, aperto a tutti. Il 23 febbraio, dopo le prime due morti «ufficiali» per coronavirus, il direttore sanitario, pressato dai suoi medici, decide di chiudere l’ospedale. Poche ore dopo, la Regione ordina l’immediata riapertura. Da quel momento saranno i suoi funzionari a gestire direttamente l’ospedale. La Procura di Bergamo ha fatto sequestrare ai carabinieri del Nas tutte le cartelle cliniche di quel periodo, fino al 7 marzo. L’ipotesi è che in quel lasso di tempo ci siano stati ricoveri promiscui tra pazienti Covid e malati di altre patologie in almeno tre reparti. Anche dopo la chiusura temporanea del nosocomio, quando sono stati creati percorsi differenziati, la separazione non si sarebbe dimostrata impermeabile come avrebbe dovuto essere.

La definizione delle zone rosse

La prima interlocuzione della Lombardia con il governo, avente per oggetto la provincia di Bergamo, risale al due marzo. Seguono alcuni giorni di discussioni durante i quali il presidente Fontana e i suoi assessori non arriveranno mai a chiedere l’istituzione di una vera e propria zona rossa. Come se il primo passo dovesse essere fatto da altri. Ci pensa il Comitato tecnico scientifico che segue l’emergenza per l’esecutivo. Gli esperti propongono «di adottare le opportune misure restrittive già in uso nei Comuni della “Zona Rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue» per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, paesi «che hanno fatto registrare casi ascrivibili a un’unica catena di trasmissione». È il 3 marzo, non c’è ancora una decisione ufficiale. Ma la zona rossa sembra cosa fatta. La sera del 5 marzo al Palace Hotel di Verdellino arrivano cento carabinieri del Reggimento di Milano. Davanti all’albergo sono parcheggiate camionette e blindati. «Noi siamo pronti» dicono. A due chilometri di distanza, al Continental di Osio Sotto, ci sono altri cento poliziotti. Poi ottanta soldati dell’Esercito, e altri cinquanta finanzieri. Tutto è pronto per la zona rossa. L’ordine non arriverà mai. Alzano Lombardo e Nembro diventeranno zona rossa solo il 9 marzo. Insieme al resto della Lombardia e dell’Italia.

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