Coronavirus, pochi tamponi: ecco le ragioni mai spiegate

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

È chiaro a tutti da tempo: lo ha detto l’Oms, lo ha dimostrato sul campo la Corea del Sud, lo ha appena ricordato il premier Conte in Parlamento: «Per contenere il Covid-19 bisogna testare, tracciare e trattare». Adesso che usciamo di casa, è cruciale isolare subito i nuovi focolai, e quindi torniamo sempre là: al tampone (che serve anche abbinato al test sierologico positivo per verificare che l’infezione non sia più in atto). Funziona così: un bastoncino infilato nel naso, un altro nella faringe, messi in una provetta, e inviati al laboratorio di microbiologia per l’analisi. Da metà marzo a metà aprile questi kit scarseggiavano, ora non più. Eppure, nonostante gli oltre tre milioni di analisi molecolari effettuate, abbiamo capito che — tranne casi eccezionali come il Veneto — nelle Regioni dove il virus è più diffuso il loro numero non è sufficiente a completare un buon tracciamento. E questo ha ricadute anche sulla ripresa: ci sono ex contagiati, che stanno bene, ma attendono da quasi un mese di poter fare il tampone definitivo che consenta loro di uscire di casa e tornare a lavorare. Dove sta il problema?

Cosa c’è dietro alla mancanza di reagenti

Per capire perché il numero dei tamponi non decolla come dovrebbe, bisogna andare oltre le dichiarazioni politiche («mancano i reagenti») e vedere come funziona il processo di analisi, anche per evitare che il problema si riproponga in autunno, quando è possibile una nuova ondata dell’epidemia. Un laboratorio di microbiologia per far marciare bene questo carico di lavoro ha bisogno di personale e un modello organizzativo che funzioni 24 ore al giorno. Ma non basta, perché il meccanismo si inceppa sulla macchina che processa i tamponi.

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