A casa o in ufficio? Sfida tra big techSfida tra big tech

di Massimo Gaggi

NEW YORK Il rischio, dice Robert Reich, l’economista di Berkeley che fu ministro del Lavoro di Bill Clinton, è che il cambiamento dei comportamenti e dei modi di lavorare imposto dalla pandemia produca nuova divisioni nella società, nuove diseguaglianze: non più borghesi e proletari, ma remoti, essenziali e disoccupati assistiti. Con i lavoratori della conoscenza, i remoti, che diventano i nuovi privilegiati (più ancora che per il reddito, perché possono lavorare chiusi in casa) mentre quelli dei servizi – trasporti, ospedali, ristorazione – non solo non possono lavorare in remoto, ma sono costretti a rischiare nel contatto fisico con utenti, pazienti e clienti.

Ma siamo davvero entrati nell’era del telelavoro? Un esperimento sociale già tentato altre volte in passato e sempre fallito, stavolta sembra avere successo. E c’è chi prevede che le torri di uffici orgoliosamente erette da grandi metropoli come New York, Londra e Shanghai diventeranno come certe fortezze abbandonate sui monti o all’ingresso delle valli alpine. Balaji Srinivasan, un venture capitalist della Silicon Valley, risolve tutto con uno slogan: «Sell city, buy country». Cioè via dalle pazze metropoli, meglio scommettere su campagne, sobborghi, città più piccole. «Macché» nega recisamente Anthony Malkin, capo di Empire State Realty Trust. «L’uomo è un animale sociale che ha bisogno di contatti personali diretti, anche sul lavoro: il modo in cui stiamo vivendo ora non è sostenibile. La città e i loro uffici torneranno a riempirsi». Malkin, il cui gruppo possiede l’Empire State Building, ovviamente tira acqua al suo mulino, ma sono in tanti a notare che lo spopolamento di New York, annunciato tante volte in passato – dopo l’influenza spagnola del 1918, dopo la Grande Depressione, dopo l’attacco terrorista del settembre 2001 – non si è mai verificato.

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