Un dilemma sul futuro

Ma non pesano solo le tradizioni culturali. Pesa anche la lotta per il potere e i differenti interessi in gioco. Le apparenze possono ingannare. Dato il nostro assetto costituzionale, la centralizzazione del potere indotta dall’emergenza può essere solo un fatto temporaneo, di brevissima durata. Qui non c’è «un uomo solo al comando». Chiamiamo premier il primo ministro ma è solo un vezzo linguistico. Egli non è un premier. Deve mediare fra le diverse istanze rappresentate nel governo. Il potere di cui dispone dipende solo dalla sua maggiore o minore capacità di mediazione. Per inciso, se il nostro primo ministro fosse un premier (con la facoltà, in quanto tale, di licenziare i ministri che non godono più della sua fiducia), allora la magistratura avrebbe dovuto incriminare Conte come principale responsabile, e non il ministro dell’Interno, per la faccenda della nave sequestrata. Quindi, per capire le scelte della Presidenza del Consiglio, si tratti del decreto economico o del futuro impiego dei fondi europei, non bisogna chiedersi che cosa voglia fare Conte. Bisogna chiedersi che cosa vogliano fare la sua maggioranza e i suoi ministri.

La coalizione che sostiene questo governo è in prevalenza anti-business, ostile all’impresa privata e, se non proprio fautrice della «collettivizzazione dei mezzi di produzione» come si diceva un tempo, per lo meno favorevole a ripercorrere la strada del duce ai tempi della Grande Depressione: ricreare lo Stato padrone, con tanto di Iri e tutto il resto. Basta fare due conti. L’orientamento economico del partito di maggioranza relativa, i 5 Stelle, è noto (da ultimo, lo ha egregiamente riassunto Massimo Franco, Corriere del 10 maggio). Si aggiunga che il Pd, economicamente parlando, è due partiti in uno. C’è un Pd, soprattutto del Nord, più collegato alle realtà produttive del Paese, che difende le imprese (senza rinunciare, naturalmente, a sostenere misure a favore dei lavoratori e dei disoccupati). Ma c’è anche una parte del partito che ha colto al volo l’occasione della pandemia per riproporre le ricette anticapitaliste e stataliste dei bei tempi del Partito comunista (a chi non piace ricordare la propria gioventù?). Talchè dirigenti di prima fila vogliono che il partito viri in direzione anticapitalista (Bettini) o propongono il diritto dello Stato di sottrarre alle aziende che riceveranno aiuti la libertà di decidere in materia di livelli occupazionali, delocalizzazioni, ecc.(Orlando). In pratica, la politica vuole mettere le mani sulle aziende private.

Se sommiamo i 5 Stelle e la frazione anti-capitalista del Pd si vede che le forze pro- mercato sono in questo governo in netta minoranza: solo una parte del Pd più i renziani. Chi pensa che il Paese avrà un futuro di benessere e prosperità solo se ci sarà un forte rilancio dell’economia (privata) di mercato si trova di fronte a un dilemma, al momento forse irrisolvibile. Se uno schieramento politico è (prevalentemente) avverso ai principi su cui si regge la società libera occidentale, di solito esiste uno schieramento alternativo che a quei principi si ispira e a cui possono rivolgersi con fiducia i fautori dell’economia di mercato. Ma in Italia, per un insieme di ragioni, ciò non vale per le componenti oggi maggioritarie dello schieramento alternativo, il centrodestra.

Si può solo constatare che le sorti dell’economia di mercato non sono in mani sicure. Con la speranza di essere smentito dallo (auspicabilmente) impeccabile contenuto del prossimo decreto economico, si può dire che non c’è soltanto in gioco il benessere materiale degli italiani. C’è in gioco anche la tenuta dell’unità nazionale. C’è non il rischio ma la certezza che, crollando l’economia di mercato, le tensioni fra Nord e Sud diventino incontrollabili.

La ragione per cui i populisti (variante assistenzialista), quando governano, portano i Paesi alla rovina, è semplice. C’è , nella loro ideologia come nella loro prassi, una contraddizione insuperabile. Vogliono ridistribuire risorse fra i territori e le classi sociali. La ridistribuzione però scatena ferocissimi conflitti in grado di mandare in pezzi un Paese se non si accompagna a una forte crescita economica. Ma la crescita economica è precisamente ciò che avversano, più di ogni altra cosa, i campioni dell’assistenzialismo.

CORRIERE.IT

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