Coronavirus, i medici di base: “Ripresa rischiosa. Disarmati contro nuovi focolai”

di GIOVANNI PANETTIERE

Roma, 6 maggio 2020 – La scommessa sanitaria della fase 2 sta tutta nel rintracciare e isolare prontamente i possibili microfocolai d’infezione. Nelle famiglie come nelle aziende, nell’ottica di scongiurare un secondo collasso dei pronto soccorso. Per far questo, dopo una Fase 1 nella quale, in alcune regioni come la Lombardia, si è puntato molto (troppo) sull’ospedalizzazione dei positivi, diventa fondamentale il ruolo dei medici di base nel gestire sul territorio la malattia. Vere e proprie sentinelle di quartieri e paesini, i diretti interessati non nascondono le criticità da affrontare prima che sia troppo tardi. “Dobbiamo essere ascoltati dalle Asl, quando, in presenza di casi sospetti, chiediamo con urgenza di effettuare i tamponi – incalza Claudio Cricelli, 69 anni, fiorentino, presidente della Simg (Società italiana di medicina generale) –. Abbiamo anche bisogno di poter essere messi in piena sicurezza nello svolgimento del nostro lavoro”.

Presidente, non ci dica che siete ancora, a più di due mesi dai primi casi di Coronavirus in Italia, alle prese con la penuria dei dispositivi di sicurezza.
“Purtroppo è così. Tute, mascherine, guanti, occhiali, copriscarpe, tutte queste protezioni ci sono state in prevalenza donate da privati o aziende farmaceutiche. Il problema è che stiamo parlando di materiali da cambiare ogni giorno. Il commissario Arcuri ha detto che all’Italia servono 40 milioni di dispositivi al mese. Bene, calcolando che i medici sono 46mila, direi che a noi ne servono 5 milioni”.

All’inizio siete stati lasciati nudi contro il Coronavirus.
“Sì, lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle. Dei 150 camici bianchi deceduti col Covid-19 circa la metà erano medici di famiglia. Abbiamo ricevuto informazioni non sufficienti, in generale si sapeva poco della malattia, come ancora oggi, per la verità. Certe uscite in libertà di alcuni virologi hanno fatto il resto”.

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