Poca cosa, o niente

Alessandro Sallusti

Di Maio si è sorpreso che i Cinque Stelle abbiano deciso di farlo fuori. In realtà è sorprendente che sia ancora lì dopo i disastri che ha combinato.

Nell’ordine: ha tradito i suoi elettori (sì Tav e sì Tap); in un anno e mezzo ha perso più della metà dei consensi elettorali; da ministro dello Sviluppo ha innescato il casino dell’Ilva e non ha risolto quello di Alitalia; da ormai due anni dice di voler buttare fuori i Benetton dalla gestione delle autostrade ma non sa come fare; si è fatto imbrigliare prima da Salvini e ora dal duo Renzi-Zingaretti; ha spaccato il partito tra «contiani» e «dimaiani»; come leader della maggioranza ha portato il Paese a crescita zero, e chi più ne ha più ne metta.

Di Maio voleva cambiare il mondo ma il mondo non lo ha ascoltato, e non lo ascolta neppure oggi che è ministro degli Esteri e vaga da un vertice all’altro senza toccare palla. Qualcuno glielo deve pur dire: Di Maio, lei non conta più nulla, sia nel partito che nel governo. Ho appena letto, nel libro che Claudio Martelli ha scritto su Craxi (L’antipatico, edizioni La nave di Teseo) a giorni in libreria, una frase che gli si addice. Bettino chiese al vecchio e saggio padre che cosa ne pensasse dei suoi rivali politici all’interno del Psi, e la risposta fu lapidaria: «Sono poca cosa, o niente».

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