Missioni all’estero da ridisegnare

di   Franco Venturini |

Sul finire della guerra del Vietnam si diceva che i soldati americani «combattevano con un braccio legato dietro la schiena». Voleva dire, quella battuta per nulla scherzosa, che i marines schierati al fronte non avevano l’appoggio del fronte interno, che l’opinione pubblica, nella Patria lontana, voleva il loro ritiro più della loro vittoria. Per fortuna le missioni all’estero dei soldati italiani sono lontane dal tragico esempio vietnamita: il loro compito è di garantire una pace già raggiunta, di addestrare forze locali, di stabilizzare zone percorse da conflitti latenti. Ma attenzione, perché in Afghanistan, prima del cambiamento di ruolo, la nostra «missione di pace» ha avuto 54 morti. Attenzione, perché oggi è il sedicesimo anniversario della strage di Nassiriya che nel 2003 uccise 17 militari e due civili. E attenzione perché i cinque appartenenti alle Forze Speciali saltati probabilmente su una mina rudimentale a sud di Kirkuk, svolgevano un compito per definizione segreto. E come il loro altri reparti possono dover affrontare analoghi rischi nel prossimo futuro.

Mentre esprimiamo una solidarietà non di circostanza ai feriti e ci inchiniamo davanti ai caduti, il nostro dovere è allora di chiederci se per caso anche i nostri soldati abbiano, almeno in parte, un braccio legato dietro la schiena. Dobbiamo chiederci se la nostra politica estera garantisca ai nostri soldati un adeguato appoggio, al di là del rito semestrale del finanziamento parlamentare. Se un Paese confuso come il nostro, con priorità assai diverse che vanno dell’ex Ilva alla ricerca perenne di un minimo di stabilità governativa, abbia la forza e soprattutto la voglia di stringersi ai suoi figli in armi quando non sono impegnati a spalare fango o a soccorrere terremotati.

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