I Curdi e l’ingratitudine di tutti noi

L’ultimo dei Sultani Ottomani ha mosso il suo esercito per svuotare e occupare lungo i quasi 500 chilometri tra il fiume Eufrate e il confine iracheno una fascia di territorio di 32 chilometri di profondità, l’equivalente di 15mila chilometri quadrati, l′8 per cento del territorio nazionale siriano. In questi 15mila chilometri nascerà un progetto di ripopolazione senza precedenti, dove dal nulla sorgeranno case, scuole infrastrutture per il valore di 26 miliardi di dollari. Un impegno non da poco, e in piccolo già provato con la ricollocazione di 360mila profughi Siriani in un’area a ovest dell’Eufrate. La zona che viene liberata in queste ore accoglierà, appunto, 3 milioni di profughi della guerra civile nella nazione di Assad. La geografia umana di quella zona non sarà più la stessa. Il che alla fine costituirà davvero una nuova sicurezza per la Turchia: in fondo un muro umano, uno stato diverso, è infinitamente più funzionale e certo più maneggevole di un volgarissimo muro di pietre e ferro e militari.

Lo scandalo per questa invasione è tanto, in queste ore, ma il fatto è che non si tratta di una novità. I curdi sono stati spintonati, e sacrificati, numerose volte nella loro sfortunata vita. A memoria recente possiamo citare la loro espulsione dal Nord dell’Iraq nel 1991, durante la prima guerra del Golfo. In quel caso il traditore fu un altro presidente americano, George Bush padre, che arrestò la vittoria del suo esercito bloccandone l’avanzata sulla capitale, lasciando così in sella Saddam Hussein. Pagarono il prezzo di quella vittoria a metà gli sciiti e i curdi. I primi, alleati dell’Iran, vennero ridotti a poche aree nel sud del Paese. Al nord i curdi vennero espulsi verso la Turchia, dove erano attesi dall’esercito di Ankara che li decimò sparando ad alzo zero mentre scendevano dai passi si montagna.

Sempre in Iraq nel 2014 cristiani, yazidi, e curdi vennero espulsi dal centro del Paese al nord, questa volta per mano dell’offensiva dell’allora giovanissimo Isis. Cinque anni dopo, questo agosto del 2019, quando il governo di Bagdad e le milizie iraniane hanno battuto e cacciato i combattenti dell’Isis, il territorio non è mai stato rimesso a disposizione dei suoi antichi e legittimi abitanti.

Al loro posto, sui loro terreni, nelle molto case ancora in piedi, sono stati insediati i cittadini di una ennesima etnia di poverissimi sciiti. Pochi i cristiani che vi sono tornati. I numeri della distruzione culturale di questi cristiani e yazidi ( che Papa Francesco progetta di andare a visitare l’anno prossimo) sanno di decimazione: i cristiani all’epoca dell’espulsione dell’Isis erano in Iraq circa 1 milione e mezzo; in agosto un censimento nazionale ha rilevato che in tutto l’Iraq ne sono rimasti non più di 200 mila.

E la memoria non può non annoverare nella lunga lista del furto di identità collettiva, il caos dei territori palestinesi, da dove gli arabi sono lentamente espulsi per essere sostituiti, con la tecnica dei insediamenti, da una popolazione israeliana sempre più numerosa. Certo, domani la Turchia si sentirà più sicura perché avrà frantumato il sogno di un potenziale stato Curdo, oggi fatto di spezzoni sparsi fra quattro nazioni, Siria, Iraq, Turchia e Iran. Un sogno diventato più forte per la generosa lotta fatta da questo popolo in nome e per conto nostro, Europa e Stati Uniti, contro l’Isis. Un sogno che ancora una volta si è spezzato davanti alla indifferenza degli alleati, la ingratitudine di tutti noi.

Tutti noi che siamo oggi come al solito intrappolati in una vana gara di parole sul che fare. Una disputa diplomatica e di comunicati che si srotola al di sopra della vita di tutte queste persone per le quali ogni minuto vale per vivere o morire. E forse mai in tale solitudine, sotto l’occhio fermo di una opinione pubblica mondiale. Una lacrima che scenda da quell’occhio fermo è l’unico vero omaggio che possiamo loro fare.

L’HUFFPOST

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